Nonostante un recente accenno alla risalita dei prezzi, l’altalena delle quotazioni del petrolio potrebbe non essere finita, senza contare che i 50 dollari al barile attuali sono la metà del prezzo di cui i grandi produttori godevano un paio di anni fa.
Ciò mentre comincia oggi ad Algeri il 15° Forum internazionale dell’Energia, al quale parteciperanno, tra gli altri, i Paesi Opec e la Russia: in agenda il possibile accordo sul taglio della produzione petrolifera, che ha spinto i prezzi al rialzo.
Nel frattempo, il più grande esportatore mondiale, l’Arabia Saudita, per ora non ha scelta: si taglia sulla spesa pubblica.
IN BILICO PROGETTI PER 20 MILIARDI DI DOLLARI
Bloomberg riporta che Riad sta intensificando le manovre per ridurre un deficit di bilancio che è ormai diventato “il più grande tra le 20 maggiori economie mondiali”. In arrivo ci sarebbe la cancellazione di progetti pubblici per un valore di oltre 20 miliardi di dollari, oltre che la riduzione di un quarto dei budget per i vari ministeri.
Il governo saudita starebbe già passando al vaglio migliaia di progetti, per un totale di circa 260 miliardi di riyal (69 miliardi di dollari) e potrebbe stracciarne un terzo, secondo le fonti di Bloomberg. Questi tagli avrebbero effetti duraturi sul bilancio statale, almeno per alcuni anni. Un piano separato è quello che riguarda la riduzione dei costi dei ministeri: alcuni sarebbero accorpati, altri eliminati.
ALLO STUDIO IL PRIMO BOND INTERNAZIONALE
Non sono le prime misure che il vice principe della corona Mohammed bin Salman cerca di adottare per sanare il deficit di bilancio, arrivato l’anno scorso a un valore pari al 16% del Pil. Il governo ha già allungato i tempi di pagamento per le aziende cui affida gli appalti pubblici e ha cominciato a tagliare sui sussidi per il combustibile. Le autorità saudite hanno anche creato l’anno scorso il National Project Management Office per controllare le spese di capitale e vigilare sull’attuazione efficiente dei progetti pubblici.
Il principe starebbe anche pensando di vendere una quota del colosso petrolifero nazionale Saudi Arabian Oil, o Aramco, e di creare il più grande fondo sovrano del mondo. Infine, l’Arabia Saudita starebbe trattando con i maggiori istituti bancari per l’emissione di quello che sarebbe il suo primo prestito obbligazionario internazionale, secondo il Financial Times. Ne ricaverebbe oltre 10 miliardi di dollari.
Il Fondo monetario internazionale pensa che nel 2017 la situazione del bilancio saudita migliorerà: il deficit scenderà sotto il 10% del Pil. Ma per raccogliere a pieno i frutti delle strategie di diversificazione economica, occorrerà attendere il medio-lungo periodo, sottolinea Raza Agha, chief economist for the Middle East and Africa di VTB Capital. “Nel breve termine, si tratta di fare i conti col calo dei prezzi del petrolio”, ma col rischio, aggiunge John Sfakianakis, direttore delle ricerche economiche del Gulf Research Center, che rallentino anche gli investimenti del settore privato e non si faccia nulla né per ridurre la disoccupazione giovanile (la più alta al mondo) e né, in generale, per bilanciare le potenziali ricadute sociali dei tagli. La crescita del Pil saudita sarà dell’1,5% quest’anno, il livello più basso da dieci anni.
DUBAI PUNTA SULL’HITECH
Diversa la reazione alla perdita di entrate dalla vendita di petrolio a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti. La strategia di diversificazione economica punta su un settore specifico: l’hitech, con start up e talenti attratti da tutto il mondo, scrive Forbes.
“Dubai sta cercando di imporsi come prima destinazione per le start up della tecnologia che vogliono avere accesso ai mercati emergenti”, sottolinea Muhammed Mekki, socio fondatore di Astrolabs, tech hub che ospita imprenditori da 40 paesi diversi e che ha il sostegno di Google. “Con oltre 2 miliardi di persone che vivono in una macro-area raggiungibile con quattro ore di volo al massimo e tutta l’infrastruttura di cui c’è bisogno per sostenere un vivace ecosistema di start up, Dubai è sempre più una sede da prendere in considerazione per avviare un’impresa”.
Da Careem, start up del ride-hailing, a Bridg, piattaforma per i pagamenti mobile-to-mobile basati su Bluetooth, a Souq.com, il più grande sito di e-commerce del mondo arabo e primo “unicorn” del Medio Oriente, si moltiplicano le imprese create a Dubai; molte sono già riuscite a espandersi verso il resto del Medio Oriente e il Nord Africa.
Tanti i fattori che hanno favorito il boom: la crescita della popolazione (passata in dieci anni da meno di 1 milione a 9 milioni di persone, di cui l’80% sono stranieri), l’avvio di incubatori e acceleratori d’impresa, tra cui Turn8, ImpactHub, Astrolabs Dubai e In5, il sostegno delle istituzioni pubbliche, che vogliono fare di Dubai la nuova Silicon Valley.
ABU DHABI CONSOLIDA LE AZIENDE STATALI
Mentre Dubai diversifica sull’hitech, ad Abu Dhabi, la capitale degli Emirati Arabi Uniti, il fondo sovrano Mubadala Development, che ha avviato il merger con la International Petroleum Investment, va a caccia di accordi nel settore energia, ora più favorevoli proprio per il calo dei prezzi. “Se si guarda al lungo termine, questo è il momento giusto per investire nella nostra industria”, afferma il Ceo di Mubadala, Khaldoon Mubarak. “Noi di Mubadala continueremo a farlo, approfittando di valutazioni ribassate”.
Abu Dhabi, che possiede circa il 6% di tutte le riserve mondiali di petrolio, sta rispondendo al collasso dei prezzi con misure diverse, tra cui un ruolo importante è giocato proprio dal consolidamento di aziende di proprietà statale. Il merger di Mubadala con IPIC creerà un gruppo dell’energia in grado di pompare più petrolio della Libia e avrà attività complessive superiori alla ConocoPhillips, per un valore di 125 miliardi di dollari. Ovviamente si considera anche la riduzione della spesa pubblica.
UN’ARMA A DOPPIO TAGLIO
Tuttavia, tagliare sulla spesa pubblica è una misura quanto mai rischiosa per i grandi produttori arabi. Nei sei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC)—Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti – la maggior parte della popolazione locale è impiegata in posti statali, mentre le aziende private assumono molti stranieri. Per esempio, in Arabia Saudita, due terzi della popolazione nazionale occupata ha un impiego pubblico, secondo i dati di Jadwa Investment relativi al 2015; in Bahrain metà delle persone lavora per lo Stato.
Mentre in altri mercati emergenti o paesi in via di sviluppo circa il 5% del Pil viene destinato agli stipendi statali, nei paesi del GCC più l’Algeria la percentuale è vicina al 12%, riporta il FMI. Inoltre, nei paesi arabi si prevede che 3,8 milioni di giovani entreranno sul mercato del lavoro di qui al 2021: il settore pubblico non sarà in grado di assorbirli.
La situazione è meno pressante in Qatar e negli Emirati Arabi Uniti, dove molti dei residenti sono stranieri. Diverso il caso di Bahrain, Oman e Arabia Saudita, tanto che qui sono state adottate misure severe per garantire l’occupazione locale: in Bahrain le aziende private devono assumere quote definite di personale bahrainiano, che arrivano al 50% del totale del personale per i settori bancario/finanziario e le multinazionali; l’Arabia Saudita vuole vietare l’assunzione di stranieri nei settori risorse umane e telecomunicazioni. Si tratta di una politica, commenta l’Economist, poco lungimirante, perché qualche azienda ha finito con l’abbandonare questi paesi del tutto.
GulfTalent riporta infatti che per il 95% delle aziende in Oman, per l’84% in Arabia Saudita e per il 55% in Bahrain questo sistema delle quote è un peso e un ostacolo. Senza contare la complessità e i costi del sistema di controllo per gli Stati: in Bahrain, dove si fanno dalle 15.000 alle 19.000 ispezioni l’anno, il governo impiega cinque anni per controllare ogni datore di lavoro.