Con l’incontro recentissimo, l’8 agosto a San Pietroburgo, tra Vladimir Putin e Recep Tayyp Erdogan, l’unico di alto livello dopo il tentativo di golpe in Turchia (e il tentato assassinio del leader turco), che peraltro Mosca ha prima segnalato ad Ankara poi duramente condannato, inizia una nuova fase della geopolitica postsovietica.
Ne inizia una anche per la Turchia, sempre meno visibilmente legata alla Nato, alla quale partecipa dal lontano 1952, ma sempre più neottomana e antiamericana, visto che gli Usa hanno probabilmente, all’inizio, sostenuto il golpe e ancora ospitano Fethullah Gulen, l’imam sunnita che Erdogan accusa di aver organizzato la rivolta militare.
Nulla è ancora certo nel riavvicinamento tra Turchia e Federazione russa. Certamente, le dichiarazioni di Mosca sono possibiliste e sostanzialmente prive di indicazioni strategiche a lungo termine, ma i risultati per i russi sono già di gran rilievo: il depotenziamento del Fianco Sud ed Est dell’Alleanza Atlantica e il probabile ridisegno e frazionamento della Siria in accordo con i turchi.
Per Erdogan, è questo il momento giusto per impostare il suo tradizionale programma panturanico, che non coincide con il programma russo ma che, certamente, nulla ha a che fare con le prospettive dell’Alleanza Atlantica in Asia Centrale.
Ahmet Davutoglu, poco prima di divenire, nel 2009, ministro degli esteri turco, dichiarò esplicitamente: “Noi siamo i nuovi ottomani. Quello che abbiamo perso nel 1911 e nel 1923 lo riconquisteremo e ritroveremo i nostri fratelli tra il 2011 e il 2023”.
Aleppo e Mossul, gli Uighuri dello Xingkiang da “spostare” in Siria, i turkmeni asiatici, parte dell’Iraq, sono tutti pezzi di cui l’AKP di Erdogan necessita per costruire un grande impero turco, sunnita e neottomano tra l’Anatolia e l’Asia Centrale.
Aleppo, Latakia e Idlib saranno l’82° provincia della Turchia, ma questo evidentemente non converge con gli interessi russi che, però, accettano la rottura de facto tra Ankara, Usa e Nato, mentre Erdogan invita gli americani a scegliere tra lui e Fethullah Gulen. Paradossalmente, però, il neottomanismo di Erdogan ha ancora molto a che fare con l’Hizmat dell’arcinemico Gulen. Tutti e due vogliono il ristabilimento dei nessi storici tra le popolazioni turche, l’uso della lingua turca, l’Islam sunnita e il Califfato ottomano. Questo spiegherebbe, peraltro, l’ambiguità finora adottata da Ankara rispetto al califfato sunnita, ma non-turco, di Daesh.
Gulen e la sua cemaat (comunità) di circa 3 milioni di membri sono da molti anni un movimento missionario apparentemente laicista, ma che vuole il ristabilimento dell’Islam, di radice sufi, in tutta l’area panturca, e la sovrapposizione del progetto di un nuovo califfato sunnita a quello di un’espansione del potere nazionale turco.
Erdogan proviene, invece, dal National Outlook Movement, un tempo parte della Fratellanza musulmana turca, da cui poi si è allontano dopo il golpe militare del 1997 per fondare, proprio con i militanti di Gulen, l’AKP. Erdogan, in sostanza, vuole ricomporre una grande umma panturanica, dalla Cina (il leader turco ha definito “un tipo di genocidio” il comportamento della Cina nello Xingkiang) all’Est europeo.
Ma il capo del governo di Ankara vuole soprattutto “turchificare” la Fratellanza islamica, ancora un suo strumento, e non sostenere l’Islam quietista e mistico della setta gulenista, che peraltro ha soffiato sul fuoco della rivolta di Ghezi Park e sostenuto le accuse di corruzione contro il regime dell’Akp.
Molto la Turchia ha speso per sostenere la follia delle “primavere arabe” e moltissimo Erdogan ha speso per mantenere la Fratellanza al potere in Egitto e nel Maghreb.
Se si pensa quindi al modo di agire di Erdogan in Siria, allora tutto diviene chiaro: usare quelli che lo stupido Occidente chiama i “moderati” in pubblico, mentre si sostengono di fatto i jihadisti, frutto estremo della Fratellanza musulmana.
La scommessa di Putin è tutta qui: se Mosca propone un accordo sulla Siria, Erdogan cesserà temporaneamente di implementare il progetto neottomano, mettendo da parte i suoi soldatini wahabiti del jihad?
Se quindi la Turchia ha a disposizione un nuovo sistema di collegamento con il suo mondo panturanico, circondato da Russia e Cina, cesserà di agitare il mito imperiale, messo in atto dai cruenti manovali del jihad? Nessuno può ancora dirlo.
Ma Mosca (e la Cina) hanno il potere di gestire e condizionare fortemente questo nuovo grande gioco. Gli Usa, la Nato e l’ormai vuota Unione europea certamente no.
Domani sarà pubblicata la seconda parte dell’analisi