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Vi spiego le stranezze del mercato del latte in Europa

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Come è possibile che un bicchiere di latte arrivi a costare meno che uno d’acqua?“. Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker se lo è chiesto, non senza imbarazzo, durante il suo intervento a Strasburgo sullo Stato dell’Unione Europea. Senza riconoscere, però, che a più di un anno dalla fine del regime delle quote latte, la crisi del settore si è sempre più aggravata arrivando al paradosso odierno che il latte conviene quasi più buttarlo che produrlo. E senza che l’Unione Europea abbia mosso un dito, o quasi, per venire incontro ad un comparto che, nell’ultimo decennio, ha visto la moria di 31.000 stalle, con migliaia di agricoltori abbandonati al loro destino. Con il mercato libero, senza che esista più un accordo sul prezzo del latte, si sono drasticamente ridotti i compensi agli allevatori e il caos si respira in Italia come in Francia, due grandi paesi produttori di prodotti lattiero caseari.

Una situazione “drammatica”, così la definisce a Formiche.net Giorgio Apostoli, responsabile zootecnia di Coldiretti. Il latte italiano è prodotto in oltre 33.000 stalle da un esercito di quasi un milione e 700.000 vacche che lavorano al 45% per i formaggi dop e  che vengono munte per due terzi nel Nord del Paese. Dalla fine del regime delle quote (31 marzo 2015) sono scomparse dal radar italiano almeno 3.000 aziende, mentre in Veneto, terza regione produttrice dopo Lombardia ed Emilia Romagna, nel solo 2015 Confagricoltura ha denunciato la chiusura di 430 stalle.

Tutto ciò perché sul prezzo del latte, anche se vi sono dei contratti indicizzati, non vi è più alcuna regolamentazione. Così se nel 2014 il prezzo di vendita superava i 40 centesimi al litro, lo scorso anno è sceso a 36, e oggi è diminuito ancora intorno ai 33 centesimi. Peccato, però, che il costo di produzione medio stimato sia sempre attorno ai 40 centesimi al litro. Ecco spiegato perché è quasi più redditizio non produrre il latte e, infatti, si è arrivato al paradosso che entro il 22 settembre gli allevatori devono inviare ad Agea, l’agenzia governativa per le erogazioni in agricoltura, una domanda in cui precisano di quanto riducono la loro produzione nei tre mesi invernali (ottobre, novembre e dicembre).

Pagati per non produrre. Ogni litro in meno di latte si riceverà un contributo di 14 centesimi. Un’agevolazione fiscale da 150 milioni di euro, voluta dall’Unione Europea: una torta da cui tutti potranno prendere un pezzo anche se è chiaro che più richieste ci saranno meno rimborsi si potranno ottenere, perché il plafond da cui attingere è fisso. “Una toppa peggio del buco” riflette il responsabile della Coldiretti “con l’eliminazione delle quote latte non c’è stato un piano alternativo, nè una moratoria, nulla. E quel mercato di quote era quasi una benedizione per noi, al punto che le rimpiangiamo perché eravamo tutti più tutelati”.

Una denuncia che arriva anche da Alpilat, l’associazione regionale dei produttori del latte in Piemonte. “Il prezzo pagato agli allevatori è arrivato ai minimi storici mentre invece il mercato del latte è in netta ripresa. In Piemonte come in Italia – è l’accusa dell’associazione – si sta assistendo a un nuovo e preoccupante fenomeno: da un lato migliorano le quotazioni e i consumi dei principali indicatori nel comparto lattiero-caseario del mercato interno, Grana Padano e Parmigiano Reggiano, dall’altro il prezzo del latte alla stalla continua a scendere. Il prezzo medio dovrebbe crescere del 10%, pari a 3 centesimi al litro, arrivando a oltre 31, mentre la quotazione provvisoria di luglio è a meno di 26 centesimi. I produttori sono ormai al collasso“.

Ma i paradossi non finiscono qui. Perché a fronte di una produzione nazionale costretta a contrarsi pur di sopravvivere, aumenta l’import di latte che arriva dall’estero: oggi oltre il 40% è prodotto fuori dall’Unione Europea. “Lasciando perdere il discorso degli standard qualitativi, appare evidente che la partita se non va risolta a Bruxelles rischia nell’arco di qualche anno di vedere sparire centinaia di piccole e medie aziende agricole che non possono reggere una concorrenza senza regole“, ammonisce Apostoli “e una regola semplice di trasparenza sarebbe quella dell’obbligo dell’etichettatura sull’origine del prodotto affinché il consumatore sappia dove è stato prodotto quel latte. Così potremmo giocarcela, perché sul nostro prodotto siamo sicuri degli standard di qualità e dei controlli“.

Un rimpianto, quindi. Perché è vero che le quote latte limitavano la produzione ma, allo stesso tempo, sostenevano i prezzi. Una sorta di “camicia di forza” uguale per tutti della comunità europea, dall’Irlanda all’Italia. Quote che il nostro paese, come si sa, ha sempre osteggiato (basta ricordare le campagne contro della Lega Nord) arrivando perfino ad aprire un contenzioso con l’Unione Europea per il mancato versamento di 1,7 miliardi di euro frutto di multe a carico dei produttori italiani che negli anni Novanta avevano immesso sul mercato più latte del dovuto. Su questo aspetto adesso si pronuncerà la Corte di giustizia europea. E quelle quote tanto osteggiate, in tempo di vacche magre, sono quasi una chimera che gli allevatori vorrebbero riavere.

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