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Stati Uniti e Russia tra divisioni, rimbrotti e convergenze parallele

“La Russia sta cercando di riguadagnare la gloria perduta tramite la forza” ma “se continua a interferire negli affari dei paesi vicini, questo renderà i confini del Paese meno sicuri”, è un passaggio del discorso con cui martedì Barack Obama ha salutato ufficialmente i capi di stato e di governo del mondo, riuniti a New York per l’assise generale delle Nazioni Unite. Tra sette settimane non sarà più presidente, a gennaio prossimo lascerà definitivamente la Casa Bianca, dove risiede da otto anni. Due mandati presidenziali dopo dei quali BO lascerà il mondo con “un quadro globale più instabile che mai” ha scritto il New York Times. Era il 23 settembre del 2009, sempre nello stesso contesto, quando si era impegnato ad abbandonare l’unilateralismo del suo predecessore George W. Bush: il sogno, il mondo monopolare, dove potenze come Stati Uniti e Russia, o Cina, lavoravano tutte nella stessa direzione. Ora la Cina sta adottando una politica sempre più assertiva e muscolare, fa wargame con i russi sulle acque contese del Mar Cinese, mentre la Russia è diventata l’elemento di interferenza e intralcio alla risoluzione su molti dei principali dossier globali. “Un clima da guerra fredda”, si sente spesso ripetere, tuttavia appare chiaro che Washington non potrà far a meno di Mosca per affrontare molte delle complicate questioni internazionali.

IL PIVOT ASIATICO

Uno dei grandi, ambiziosi obiettivi della presidenza Obama era diventare il “pivot asiatico”, ossia il giocatore di riferimento (il pivot è il cosiddetto “centro” nel basket) per tutti gli affari orientali. La missione non è riuscita, la Cina, il principale player, prima avvicinata, ha un’agenda propria che in questo momento la porta lontana da Washington. Un paradigma, il Mar Cinese, appunto: la Cina ha interessi in diverse zone, rivendica la sovranità su isolotti che hanno un ruolo centrale dal punto di vista strategico (materie prime e snodi commerciali) in sovrapposizione a richieste analoghe di alcuni paesi alleati degli Stati Uniti. I russi si sono fatti sponda dei cinesi, e hanno risposto agli avvertimenti americani contro la militarizzazione in atto nell’area per opera di Pechino, organizzando una grossa esercitazione congiunta. Mosca sostiene che è inadeguato che gli americani interferiscano nelle vicende regionali del Mari Cinese, ma gli Stati Uniti non hanno alternativa che dare supporto ai propri partner locali, come Filippine, Vietnam, o Giappone: la soluzione non sarà però una pratica da affrontare muscolarmente in modo unilaterale. Tokyo, per esempio, ha accolto con favore la nuova nomina di Anton Vaino a capo dello staff presidenziale: “È un esperto di Giappone” spiegava il Japan Times, ricordando che potrebbe aiutare il paese nel risolvere le controversie storiche sulle isole Kuril, e pensando alle beghe delle Diaoyu/Senkaku nel Mar Cinese. Sullo sfondo, l’interessamento della Russia (che dopo la disgregazione sovietica si è concentrata di più sul fronte europeo) all’area asiatica, anche come contro-bilanciamento agli accordi commerciali previsti dal Trans-Pacific Partnership (TPP), da cui è esclusa.

LA SIRIA

Altro enorme dossier (non si segue in questo elenco un ordine di importanza) è la crisi siriana. La guerra civile ha assunto da tempo dimensioni globali, sia per l’interessamento di attori esterni (Turchia, Arabia Saudita e paesi del Golfo, a favore dei ribelli, Iran, Russia, a sostegno del regime), sia perché è stata la leva che ha dato spunto alle ambizioni egemoniche dello Stato islamico. Prescindere da una collaborazione con Mosca è impossibile: i russi hanno presenza territoriale con basi in Siria e soldati sul terreno, controllano una parte del regime di Damasco e hanno opzioni per pressare l’Iran. Senza una negoziazione congiunta, il bagno di sangue che ha portato già i morti a cifre oltre i quattrocento mila, proseguirà: e ciò nonostante la Russia abbia assunto più volte un comportamento ambiguo; ultimo esempio, il convoglio Onu colpito a ovest di Aleppo, per cui gli Stati Uniti accusano i caccia russi.

TERRORISMO

Dal conflitto siriano, s’è detto, si è scatenata la furia jihadista globale: lo Stato islamico era una realtà già conosciuta e presente in Iraq, ma il caos della guerra civile in Siria è stato l’occasione che ha permesso ai baghdadisti di attestare il proprio controllo su un’area territoriale e avviare la rivendicazione del sedicente Califfato. Da questa realtà statuale, l’IS ha sviluppato un’enorme potenza operativa anche a livello terroristico: la volontà egemonica di conquista, può, nei fatti, essere sfamata soltanto attraverso gli attacchi agli “infedeli”. Il terrorismo internazionale è tornato ad essere uno dei dossier in cima alla lista delle preoccupazioni. Il contrasto è questione da condividere: la Russia è il paese europeo che più di tutti ha contribuito al flusso di foreign fighters verso il jihad califfale, ed è tutto nell’interesse di Mosca combattere il fenomeno, prima che questi combattenti ritornino nelle zone instabili del Caucaso e diano sfogo a una problematica interna già presente. La doppia agenda giocata in Siria da americani e russi, pro o contro il regime, ha necessità di sovrapporsi quando il terrorismo esce dai confini del Califfato, entra in Europa e prende le via occidentali o russe.

IRAN

Una dei più grandi successi raggiunto da Obama in ambito di politica globale è la chiusura dell’accordo sul nucleare iraniano: Teheran congelerà il suo programma militare. È un deal controverso, perché nella narrativa spinta dalle posizioni più dure del regime teocratico della Repubblica islamica, gli Stati Uniti restano sempre “il grande Satana” e l’accordo è dipinto come una sorta di imbroglio con cui l’Iran ha ottenuto lo sblocco delle sanzioni commerciali mentre procederà ancora con il suo programma per costruire la bomba atomica. La Russia ha un peso: Mosca è un partner militare e commerciale nevralgico per Teheran, anche se i russi mal digeriscono la visione ideoligico-religiosa che gli ayatollah danno alla crisi siriana – atteggiamento ricambiato, declinazione “troppo laici”, dagli iraniani – che è il principale paradigma di questa partnership. Controllare l’Iran sarà centrale per la gestione delle instabilità in Medio Oriente, e sarà un compito in cui Washington non potrà far a meno di Mosca.

I PARTNER DEL GOLFO E ISRAELE

Arabia Saudita e Paesi del Golfo sono tra i principali scettici sull’intesa nucleare e sulla ri-accettazione dell’Iran tra i tavoli diplomatici. L’America del futuro avrà il compito di rassicurarli per non perdere l’alleanza strategica, e si vedrà incalzata anche dalla Russia, che sta cercando – per interessi – di avvicinarsi ai sauditi ottenendo in cambio un atteggiamento più flessibile sulle produzioni petrolifere. Sullo sfondo l’indipendenza energetica americana, con gli shale oil che si sono trasformati in base produttiva anche per le esportazioni, in concorrenza con il petrolio arabo. Tra gli scettici sull’Iran, su tutti Israele: l’America di Obama ha in parte annacquato il partnerariato storico con Gerusalemme, anche per l’antipatia personale tra il presidente americano e il primo ministro Benjamin Netanyahu. Ma l’intesa tra Israele e Stati Uniti è forte, e niente più del finanziamento militare monstre da 38 miliardi in dieci anni può dimostrarlo meglio. Ma anche in questa situazione, Washington dovrà in parte abituarsi a una cogestione dell’amicizia: anche in questo caso è stata cruciale la Siria, perché da quando Mosca ha deciso di lasciare intatti gli interessi israeliani sul dossier (in pratica, contenimento militare di eventuali flussi di armi verso Hezbollah), s’è aperta una collaborazione che potrebbe essere più ampia, per esempio la possibilità di spostare un importante tavolo di dialogo con la Palestina in Russia.

EUROPA (E UCRAINA)

Altro argomento ancora sul tavolo è l’Ucraina. Si susseguono folate guerresche tra separatisti filo-russi e governativi, le accuse sulle responsabilità di Mosca sulla situazione sono ancora in piedi, così come le sanzioni conseguenti, mentre l’implementazione degli accordi di pace è sempre più lontana. Washington gestisce la pratica in collaborazione con gli alleati europei, che tuttavia non rappresentano un blocco granitico: tra i paesi dell’UE era il Regno Unito quello che teneva più il punto, gli altri seguono ognuno agende troppo personali, dove gli approvvigionamenti energetici e gli interessi commerciali nazionali fanno da guida nel mostrare debolezze e apertura alla Russia. È impossibile risolvere quello che succede in Ucraina, focolaio di scontri al confine dell’UE, senza una collaborazione con Mosca: e per farlo Stati Uniti e Europa cederanno alcune delle proprie posizioni più rigide ai tavoli negoziali.

NATO

L’Alleanza Atlantica è tornata ad essere un altro degli importanti terreni di scontri con la Russia durante la presidenza Obama. Mosca si sente minacciata per l’espansione dei paesi membri ai propri confini. Il Fonte Orientale (Polonia, Romania e stati baltici) è sempre più inquieto perché subisce l’influenza del soft power russo al propri interno: chiede un atteggiamento più severo, ma Washington, che della Nato è azionista di maggioranza, non può alzare ulteriormente i toni. D’altronde, tra accordi (come quello sugli investimenti militari) non rispettati e disattenzione, fino alla crisi in Crimea l’alleanza soffriva una crisi di identità, rinvigorita proprio dalle azioni espansionistiche nella penisola ucraina.

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