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Cosa lega Trump, Le Pen e Petry

La nostra realtà contemporanea è caratterizzata da una serie cospicua di cambiamenti. I temi politici all’ordine del giorno sono mutati rapidamente, alla stessa stregua di come è cambiato radicalmente il tipo di vita, e gli interessi individuali e collettivi di ogni persona.

La novità più significativa è sicuramente decretata dall’affermarsi di un nuovo tipo di conservatorismo globale, di una particolare declinazione culturale della ormai consolidata “destra internazionale”.

Capire l’attualità, in fin dei conti, significa adesso comprendere cosa tiene uniti tra loro personaggi tanto diversi e tanto simili come Donald Trump, Marine Le Pen e Frauke Petry.

Si tratta certamente di fenomeni molto estremi, di reazioni forti e decise ad un certo tipo di società moderna, ma proprio perciò, non fosse altro per la popolarità che riescono ad avere, essi esprimono manifestazioni profonde di disagio e volontà collettive che attraversano sottopelle il sentire della gente comune in modo incredibilmente trasversale.

Per capire, insomma, occorre studiare, ricostruendo il necessario processo storico, iniziato nel Secondo Dopoguerra, che ha condotto soltanto adesso al concretarsi pure in Occidente di questo paradigma politico ultra conservatore.

L’ultimo conflitto mondiale è stato l’apeteosi dei nazionalismi ideologici, maturati dopo la prima guerra mondiale, ideali che hanno portato al disastro finale che ben conosciamo. Il mondo diviso in blocchi, in Occidente, è stato segnato perciò dal rigetto delle antiche identità comunitarie e dal tentativo forte di ricostruire l’Europa su di una base diversa, indebolendo le sovranità statuali a vantaggio di nuove istituzioni internazionali, agganciate agli Stati Uniti con l’Alleanza Atlantica. L’anti comunismo e l’appartenenza alla Nato hanno costituito, sotto l’egida di Washington, la nostra sicurezza e l’espansione dei diritti individuali europei per decenni.

Finito l’incubo sovietico si sono affacciati, negli anni ’90, recrudescenze nazionalistiche, prima nei Baltici e poi in tutta l’Europa orientale.

Oggi questo fenomeno non soltanto è diventato una realtà anche in Francia, Inghilterra, Italia e Germania, ma perfino gli Stati Uniti hanno assistito al ritorno di uno sciovinismo che non appartiene per storia e cultura alla maggioranza degli elettori Repubblicani.

Per questo Trump, Le Pen e oggi Petry sollecitano un interesse che va oltre la provocazione e si collega ad un’idea di ordine globale inedita fino a qualche anno fa, un ordine limitato e, al contempo, profondamente tradizionale nel modo di concepire i confini e le relazioni tra i popoli, nonché i rapporti diplomatici tra i singoli Stati.

Se, infatti, Trump appare in svantaggio rispetto alla Clinton nei sondaggi ufficiali dei Grandi elettori, sappiamo tutti molto bene che i dati popolari segnano invece una forte presa elettorale del magnate newyorchese. La Le Pen, da par suo, sarà sicuramente il candidato da battere sia per Nicolas Sarkozy e sia per Francois Hollande. E adesso le recenti amministrative tedesche lanciano l’AFD come il secondo partito dietro i Socialdemocratici, schiacciando la leadership di Angela Merkel tra gli inseguitori progressisti che arrancano.

Il caso tedesco è il più emblematico per capire dove si gioca la partita futura. La sua flessione è la crisi stessa del PPE e di questa Europa a trazione centrista, un partito gigantesco in fondo giudicato ormai come una succursale dei socialisti, incapace di vendersi come oggettiva alternativa politica in un mondo la cui forma burocratica e astratta non piace più alla gente.
Ma cosa è successo realmente?

L’idea di poter costruire su delle basi individualistiche società aperte, nelle quali la logica del profitto e delle libertà potesse rappresentare l’essenza di una democrazia senza confini, viatico per un’umanità unificata e pacificata, ha ceduto il passo ad un disordine nel quale, prima ancora del terrorismo, la minaccia è costituita dalla perdita di certezze e dalla reale incapacità di poter convivere, al di fuori delle singole opzioni individuali, tutti insieme negli stessi luoghi. Il multiculturalismo si è tradotto in conflitto sociale interno alle città, l’accoglienza umanitaria in un obbligo sentito come imposto che obbliga alla povertà e al pericolo i cittadini, e tutto ciò spinge la gente comune a ritirarsi non nell’egoismo personale, che non basta più, ma nella solidarietà del conosciuto, del prossimo, nella concreta realtà rassicurante della proprio micro comunità.

Questa mentalità particolarista è esattamente la risposta che andavamo cercando sui motivi di questa nuova destra internazionale. Via ai sogni imperialisti, inattuabili per le troppe insidie internazionali; via all’idea di una democrazia da garantire ovunque con le armi, perché in Oriente si è consolidata la potenza nazionalista di Putin, Assad ed Erdogan; via ad ogni velleità che trascuri le concrete esigenze di cittadini che si sentono insicuri, poveri e deufradati da lobbie finanziarie, cosa rimane come possibile?

Lo Stato nazionale. Questa è la conclusione della Le Pen, il cui programma è tutto incentrato sulla restaurazione del nazionalismo francese. Questo è l’obiettivo di Trump, che miete consensi con lo slogan “niente nazione senza confini”. Questa è la direzione della Brexit che la May vuol governare in modo solo britannico. Ma questa è anche la linea che la Petry ha utilizzato contro la CDU in campagna elettorale, e perfino contro gli altri partiti di destra ideologici: tornare allo Stato chiuso, recuperare una politica limitata che si occupi solo ed esclusivamente dei propri cittadini, ridisegnare un’Europa federale delle Nazioni in alternativa ad un super Stato europeo che non riesce a venire alla luce.

Il compito di tutti partiti di centrodestra, appartenenti al PPE, oggi è per questo tanto arduo e difficile. Una cosa però è certa. Inseguire i socialisti è un fallimento annunciato, perché porta voti solo a sinistra e a destra. Capire, invece, le ragioni conservatrici di questo sentimento reazionario di chiusura verso un ordine globale condiviso è l’unica àncora di salvezza per i partiti moderati.

E tale sforzo richiede di rompere il collante che salda nel potere il centro alla sinistra, recuperando invece la funzione vera del popolarismo, che è quella di concepire democrazia, pace internazionale e visione universale dei diritti partendo dall’insuperata e incancellabile realtà degli Stati nazionali. Il fine delle comunità, infatti, non è chiudersi per separarsi dal mondo, ma ordinarsi all’interno per dare il proprio contributo all’intera umanità: un’umanità che esiste ed è un obbligo etico per gli Stati, come insegna Papa Francesco, ma che può riconoscersi e accogliersi reciprocamente solo nella granitica certezza delle proprie relative identità popolari e nazionali non più messe in discussione con la retorica e il falso buonismo.


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