“Ambasciatore porta pena”, è il titolo dell’editoriale del Manifesto con cui si nega spiritosamente, ma non troppo, al rappresentante del governo americano in Italia, John R. Phillips, la prima caratteristica di un diplomatico, che è quella di “non portare pena”, dovendosi limitare a riferire solo quello che nel suo Paese lo hanno incaricato di dire: nel nostro caso, il sostanziale auspicio che non vinca il no nel referendum sulla riforma costituzionale. Che sarebbe “un passo indietro”, disincentiverebbe gli investimenti esteri e restituirebbe allo stivale tricolore, se mai l’ha persa davvero, la instabilità già una volta descritta dal presidente del Consiglio, fra le solite proteste degli altrettanto soliti dissidenti del suo partito, ricordando i 63 governi succedutisi nei 63 dei 70 anni della storia repubblicana.
L’editorialista del Manifesto, pur decisamente misurata rispetto a Marco Travaglio, che sul Fatto Quotidiano ha titolato ironicamente, ma non troppo neppure lui, che “gli Usa bombardano il no” referendario dei vari D’Alema, Vendola, magistrati della corrente “democratica”, Salvini, Merloni, Brunetta, Cesa, Quagliariello e compagnia confondendo, ha dimenticato che gli ambasciatori americani sono atipici rispetto a quelli di altri Paesi, compreso il nostro. Essi sono diplomatici sino ad un certo punto, essendo prima ancora politici, appartenenti al partito del presidente statunitense in carica, a volte persino finanziatori delle campagne elettorali del capo della Casa Bianca, e imprenditori.
Qualcosa del genere il povero Giulio Andreotti cercò di fare anche in Italia pensando nel 1976 di nominare ambasciatore italiano negli Stati Uniti l’allora presidente della Fiat Gianni Agnelli, ma dovette arrendersi alle resistenze dei diplomatici di carriera. Che si sentirono offesi, per quanto alcuni di essi a fine carriera avessero l’abitudine, e fortuna, di approdare nei consigli di amministrazione o altro delle aziende dell’”avvocato”, come Agnelli veniva comunemente chiamato.
Negli anni della cosiddetta solidarietà nazionale, quando il suo governo era sostenuto dall’esterno dal Pci, ad Andreotti apparve conveniente che l’Italia fosse rappresentata a Washington da un filo-americano dichiarato ed entusiasta come Agnelli, capace col suo nome di rasserenare i diffidenti alleati americani.
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Non so, francamente, se l’ambasciatore Phillips, peraltro nipote di emigrati italiani negli Stati Uniti e amico personale e trasparente di Renzi, si sia espresso come si è espresso sul nostro referendum costituzionale più da ambasciatore o da imprenditore. Lo ha fatto, forse non a caso, parlando in un convegno di studi mentre un’agenzia americana di rating come Fitch, molto apprezzata dalla sinistra italiana quando faceva le pulci all’ultimo governo di Silvio Berlusconi contribuendo alla sua caduta nell’autunno del 2011, valutava anch’essa gli effetti destabilizzanti, ai fini economici, di una vittoria referendaria del no alla riforma costituzionale.
Certo, a insospettire, anzi ad irritare gli avversari di sinistra, di destra e di centro di Renzi ha contribuito il fatto che la sortita dell’ambasciatore sia arrivata il giorno dopo l’annuncio dell’appuntamento dato a Renzi dal presidente uscente degli Stati Uniti per il 18 ottobre, riservandogli l’ultima cena, o colazione, del suo doppio mandato alla Casa Bianca.
Diavolo di un uomo, come si permette questo Obama – debbono essersi detti dalle parti di D’Alema, Brunetta e compagni – di usare la propria agenda senza prima chiedere l’autorizzazione alle variegate opposizioni italiane, magari incaricando il suo ambasciatore a Roma di consultarle una alla volta, in modo da offrire a ciascuna di esse il massimo di visibilità? Questi americani sono proprio dei prepotenti e maleducati, hanno gridato lor signori dell’opposizione.
“Cose da pazzi. Per chi ci prendono?”, ha detto, sconsolato, l’ex segretario del Pd e mancato presidente del Consiglio Pier Luigi Bersani. Che, tentatissimo pure lui dal no referendario, sia pure a giorni o ore alterne, è peraltro tornato in televisione, alla riapertura del salotto di martedì a la 7, ospite graditissimo di Giovanni Floris, per ridere in diretta dell’imitazione che ne fa Maurizio Crozza, non essendogli forse mai venuto in mente che quelle crozzate, diciamo così, abbiano contribuito ai suoi infortuni politici. A cominciare dalla penosa rincorsa dei grillini, all’inizio della legislatura, più di tre anni fa, per cercare inutilmente di strapparne un aiutino esterno alla nascita del governo di minoranza, ma curiosamente anche di combattimento, che egli si era proposto di formare pur di non trattare le cosiddette larghe intese con l’odiato Silvio Berlusconi, raccomandate invece dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Che al momento opportuno gli revocò praticamente l’incarico di presidente del Consiglio, ricevendo in premio dallo stesso Bersani, come in una comica, la rielezione al Quirinale: l’unica nella ormai lunga storia della Repubblica italiana.
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Il povero Bersani merita comunque di essere considerato sobrio rispetto alle reazioni opposte agli incoraggiamenti americani a Renzi dal vice presidente della Camera Luigi Di Maio, ancora considerato in corsa per conto dei grillini alla guida di un nuovo governo, per quante scuse abbia dovuto chiedere sulla piazza principale di Nettuno per i pasticci combinati a Roma nell’azione di sostegno e insieme di controllo della sindaca Virginia Raggi. Scuse peraltro miste ad altri pasticci, questa volta con la lingua italiana, avendo egli sbagliato i congiuntivi fra gli sguardi un po’ esterrefatti del suo amico ma potenziale concorrente Alessandro Di Battista, chiamato Dibba dai suoi amici, ma anche il Che Guevara de’ Noantri per i 4000 e rotti chilometri percorsi in moto in Italia per reclamizzare il no referendario all’odiata riforma costituzionale.
Di Maio, che mi permetterà di considerarlo ironicamente colto in flagranza di assenza dalle lezioni già al secondo giorno del nuovo anno scolastico, ha combinato riforma costituzionale e sostegno degli americani per paragonare Renzi al generale Pinochet, cambiandone però la nazionalità: da cileno a venezuelano.
Di Maio deve essere, come tanti suoi connazionali, di quelli che non riescono a collocare bene i paesi nella loro mente sino a quando non li hanno visitati verificandone di persona confini e collocazione geografica. Dalle parti del Cile e del Venezuela, evidentemente, egli non ha ancora avuto la possibilità di andare. Sarebbe ora che ci facesse un salto, senza aspettare di farlo da improbabile presidente del Consiglio.
Il carattere strumentale delle tante e dure reazioni alla sortita dell’ambasciatore americano sul referendum costituzionale italiano è dimostrato dalla rapidità con la quale si è chiuso il presunto incidente diplomatico riconoscendosi tutti nelle ovvie considerazioni del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sulla “sovranità” che spetta agli elettori, ma anche sull’interesse che suscitano all’estero le vicende politiche di ogni Paese importante come il nostro. Tanto rumore, insomma, per nulla. Come spesso accade nevroticamente da noi.