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Perché l’accordo governo-sindacati sul lavoro gravoso è piuttosto grave

Giuliano Poletti

“Lavorare stanca” scriveva Cesare Pavese, memore del fatto che era stato Dio a cacciare Adamo dall’Eden annunciandogli che da allora in avanti lui e i suoi discendenti si sarebbero guadagnati il pane e il companatico col sudore della fronte (mentre Eva avrebbe partorito con dolore). Nel verbale di sintesi del 28 settembre scorso il Governo e i sindacati si sono inventati, al fine di ridurre i requisiti richiesti per il pensionamento, il lavoro “gravoso” (che è qualche cosa di diverso da quello usurante). Ovviamente questa idea – se tradotta in legge – non solo aggraverà i costi del sistema pensionistico (i lavoratori “gravati” andranno in quiescenza prima), ma aprirà una falla difficile da rinchiudere, giacchè tutti sosterranno che il loro è un lavoro gravoso, visto che alla sera rincasano stanchi.

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Ho un caro amico romano di religione ebraica. Confesso che provo molta invidia per lui. Quando lo incontro o le sento per telefono non esito a dirgli: “Vendi casa, raccogli i tuoi risparmi e vattene in Israele, tu che hai la possibilità di espatriare”. Almeno troverà laggiù una causa per cui è degno e giusto combattere, prima che sia troppo tardi. Il voto dell’Unesco sul Muro del Pianto pretende di privare della sua storia uno dei popoli più antichi del mondo. La risoluzione votata è degna di essere pubblicata su di una versione aggiornata del Protocollo dei Savi di Sion, un cumulo di menzogne raccolte al solo scopo di alimentare l’antisemitismo che non ha mai smesso di germogliare nell’immondezzaio dell’Europa.

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Apprezzo l’iniziativa de Il Foglio di condurre una battaglia di stampa contro quell’infamia e contro il voto di astensione dei membri della delegazione italiana nell’Unesco. Trovo comunque che la questione sia generalmente sottovalutata. Non se ne occupa più di tanto la grande stampa, non ne hanno parlato i talk show, non risultano azioni parlamentari che chiamino il ministro degli Esteri a rispondere. È inutile fare confronti con il clamore suscitato da altri eventi di minore importanza politica, diplomatica ed etica.

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In questa circostanza mi sento di rimproverare Israele per un solo motivo: aver perduto, da tempo, quell’efficienza militare che stupì il mondo ad Entebbe e prima ancora nelle guerre degli anni ’60 e ’70. Eppure oggi ne ha più bisogno di ieri, perché ha meno amici disposti a difendere la sua sicurezza.



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