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Alcuni problemi della ricerca in Italia

Quasi 40 anni fa sono entrato in laboratorio come studente. Da allora sono passato attraverso innumerevoli riforme del “sistema ricerca”. Riforme che hanno toccato marginalmente i problemi sostanziali della ricerca in Italia.
Questa mia affermazione è evidente se pensiamo ai grant ERC, i più prestigiosi finanziamenti alla ricerca della Unione Europea. Sono finanziamenti personali e il ricercatore che li vince decide dove spenderli. Molti Italiani li vincono, a testimonianza di una buona preparazione. Pochissimi ricercatori, italiani e stranieri, decidono però di utilizzare il loro grant ERC in Italia. Perché pensano che il sistema, per una serie di motivi, non sia adatto a svolgere una ricerca competitiva.
E’ proprio su questo problema che un governo dovrebbe lavorare: rendere il sistema della ricerca in grado di attrarre capitale umano dall’estero. Non è importante la nazionalità. L’importante è che arrivino cervelli. Al contrario, da decenni, siamo tra i maggiori esportatori di talenti.
I giornali individuano spesso il colpevole di questa scarsa attrattività nella baronia. Professori che fanno vincere un posto di ricercatore al proprio collaboratore o che scambiano posti in giochi di potere. Da sempre le riforme hanno detto di voler affrontare questo aspetto. Evidentemente, se dopo 40 anni siamo ancora qui a parlarne (gli ultimi articoli con interviste a Cantone poche settimane fa) vuol dire che le riforme non hanno inciso più di tanto.
Ma se questo non fosse il vero problema? Non voglio negare che esista. Voglio solo dire che che le assunzioni per baronia, oggi, non sono la causa principale della sofferenza del sistema. Sono invece un ottimo capro espiatorio per evitare di affrontare organicamente la tematica.
La ricerca italiana è piena di capitale umano eccellente. La produttività scientifica misurata dagli indicatori è lì a dimostrarlo. Solo che spesso i ricercatori non sono messi in grado di esprimersi al meglio. Il leitmotiv è che è facile essere un buon ricercatore all’estero. Ma uno è veramente bravo se riesce ad essere competitivo anche in Italia. Nonostante sia in Italia.

Quali sono i cardini che a mio avviso dovrebbe affrontare una riforma che renda interessante fare ricerca in Italia? Essenzialmente tre: Finanziamenti, Assunzioni, Burocrazia (FAB).

I Finanziamenti. Da tempo le finanziarie hanno contratto gli investimenti pubblici per la ricerca, creando una situazione di sofferenza. Nel caso del CNR, Ente per cui lavoro, più dell’80% dei circa 500 milioni di euro che l’Italia investe nel suo più grande ente di ricerca, al momento vanno in stipendi. Perché il taglio dei fondi statali è stato più veloce del pensionamento. Il restante 20% è costituito da spese di funzionamento (energia elettrica, riscaldamento, buoni pasto per i dipendenti). Il risultato è che per la ricerca non rimane nulla. Lo stesso stesso discorso si può fare per tutte le istituzioni pubbliche (tranne IIT) che si occupano di ricerca in Italia.
Così la ricerca in Italia si fa esclusivamente con i grant che i ricercatori riescono ad ottenere in modo competitivo da fondazioni private e/o da agenzie pubbliche non Italiane. In altre parole lo Stato paga lo stipendio ed il mantenimento delle strutture (che non è poco). I ricercatori, procurandosi i grant, mettono i fondi per la ricerca. Per darvi un’idea di cosa questo voglia dire, nel caso del CNR lo stato ci mette 500 milioni e i ricercatori si procurano da fondazioni private e partecipando a grant competitivi internazionali altri 500 milioni con cui possono lavorare. Paradossalmente parte dei 500 milioni che si procurano i ricercatori vengono utilizzati per la gestione degli Istituti perché il fondo statale non è affatto sufficiente.
Il sistema ricalca, esasperandolo, quello che avviene in tutto il mondo. Ovunque i ricercatori si procurano finanziamenti. E’ un modo per fare buona ricerca. Tuttavia, negli altri paesi dove esistono gli Enti Pubblici di Ricerca (EPR), lo Stato fornisce un finanziamento di base. Ed ogni anno bandisce finanziamenti sostanziali che vengono assegnati su base competitiva.
L’organizzazione che si è venuta a creare in Italia ha molti punti deboli. Due a mio avviso i più importanti. Il primo è che se uno rimane senza grant (e oggi questa è una situazione abbastanza diffusa) suo mal grado è costretto a non sviluppare le sue ricerche. Il secondo è ancora più importante. Se lo Stato non investe soldi per tener aggiornata la strumentazione dei centri di ricerca anche il ricercatore migliore non riuscirà ad essere competitivo. E la maggior parte dei finanziamenti privati non permettono di acquistare strumentazione ma solo materiale di consumo.
In questi anni lo Stato ha deciso che il sistema della ricerca debba venir valutato e che i fondi agli Enti e alle Università vengano assegnati sulla base della valutazione, inizialmente in modo limitato ma poi a crescere. Eticamente corretto. Se io ti do i soldi per lavorare, se investo le tasse dei cittadini per la tua attività, allora tu devi essere responsabile. Esiste un però. Se si riduce il finanziamento, a causa di una non buona valutazione, si riduce di conseguenza la capacità di migliorare attraverso, ad esempio, una politica seria di reclutamento.
Insomma, così come è congegnato è un sistema al ribasso. Lo Stato investe poco demandando completamente ai ricercatori il compito di recuperare i fondi per lavorare da istituzioni esterne. Non esiste, al contrario di tutti gli altri paesi, una agenzia che garantisca un finanziamento, anche su base competitiva, della ricerca. Il caso dei finanziamenti PRIN di quest’anno è stato esemplare. 90 milioni di euro per tutta la ricerca Italiana, dopo anni senza nessun bando. Tanto per avere un confronto, in Francia, ogni anno vengono fatti bandi statali per 900 milioni di euro.
Così il messaggio è molto semplice. I ricercatori non riescono a recuperare i finanziamenti sufficienti perché non sono messi in condizioni adeguate. Lo Stato riduce i finanziamenti. E si innesca un meccanismo lento di selezione. Per sopravviver esiste un’unica soluzione praticabile. Puntare in modo selvaggio sull’eccellenza, convincendo i migliori a sacrificarsi per il sistema. E questo ci porta al secondo punto critico.

Le Assunzioni. L’elemento principe per la buona scienza è sicuramente la mente umana. Questo non vuol dire che tutti debbano essere dei fuoriclasse. Anzi, è il livello complessivo del gruppo, come in una squadra sportiva, che determina il successo. E’ la passione per la scienza.
Certo è che la politica del reclutamento può favorire o sfavorire la selezione dei migliori e anche degli onesti. Soprattutto in un mercato globale, dove chi ha più numeri, ambizione ed inventiva, ha anche maggiori probabilità di accedere a posizioni all’estero. E’ quello che avviene costantemente. Chi ha la possibilità di andare a fare un periodo post-dottorato o il dottorato in laboratori prestigiosi all’estero generalmente non torna. E quando pensa di tornare talvolta deve aspettare anni che escano dei concorsi e alla fine trova un posto all’estero e si fa una famiglia. La mancanza di una programmazione è il problema. Pochi posti, centinaia di concorrenti, tutti scontenti. E’ quello che sta avvenendo con gli ultimi concorsi banditi dal ministero e in fase di espletamento. I concorsi arrivano in modo quasi casuale, non esiste un piano organico che permetta sia gli enti/università che ai giovani di intravedere delle linee guida. Così la gente in tanto cerca soluzioni alternative per andare avanti.
Quando poi i concorsi ci sono, la selezione per gli EPR (Enti Pubblici di Ricerca) viene fatta con criteri per lo meno discutibili, che non necessariamente riescono a selezionare i migliori. Dando poco valore al curriculum (1/3 del punteggio) e molto ad un tema scritto o all’interrogazione. E soprattutto senza coinvolgere chi poi dovrà ospitare il ricercatore. La selezione infatti viene operata da una commissione esterna, con l’idea di garantire l’imparzialità. Come se un privato dovendo selezionare i suoi ingegneri non potesse valutare direttamente la persona ma si affidasse ad una commissione esterna. Il risultato di questo percorso di selezione, combinato con la scarsa attrattività in fatto di strumentazione (vedi sopra) fa si che i migliori generalmente non si presentino neanche. E questa considerazione ci porta inevitabilmente al terzo pilastro del problema.

La Burocrazia. Questo è l’ultimo temibile ostacolo. Un pò perché, nel tentativo di selezionare a priori i ricercatori migliori secondo criteri oggettivi (il migliore al mondo, gli altri purtroppo non sono all’altezza), la burocrazia dilata i tempi in modo inaccettabile. E spesso si aprono ricorsi interminabili.
Ma ancora di più perché ormai la burocrazia si è insinuata in ogni aspetto della vita di laboratorio. Vuoi ordinare un reagente che serve per i tuoi esperimenti? Procurati tre o meglio 5 preventivi. telefona, manda mail, sollecita i preventivi. Consulta il mercato elettronico, scrivi lettere in cui giustifichi perché vuoi ordinare un prodotto piuttosto che un altro. In nessun altro posto al mondo la burocrazia infierisce così pesantemente su chi fa ricerca. E così ci vogliono settimane dove all’estero chi compete con te ci mette molto meno. Il ricercatore spende una frazione considerevole del suo tempo in pratiche. Tempo che sottrae alla ricerca. Il fatto è che queste voci circolano. Chi è all’estero, quando lo contatti perché partecipi ad un concorso ti risponde: No grazie. Di tornare per vivere così non ho proprio voglia. Magari in futuro. Chissà.


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