Ora che si è depositata la polvere di quella curiosa celebrazione in vita dell’ormai ottantenne Silvio Berlusconi, se ne può tentare un bilancio. E riconoscere che l’articolo più critico, diciamo pure più cattivo, è stato quello dedicatogli da Vittorio Feltri su Libero. Dove il successore di Indro Montanelli alla direzione del Giornale di famiglia dello stesso Berlusconi è entrato e uscito più volte, l’ultima delle quali dando al suo ex editore del “politicamente finito” anche nel titolo di un intervento in cui ne spiegava le ragioni.
Corrosivo e impietoso come si compiace spesso di essere, anche quando a capitargli a tiro, per difendere l’entusiastico appoggio dato ad Antonio Di Pietro negli anni “terribili” dell’inchiesta Mani pulite, è il simpaticissimo figlio Mattia, autore di un libro dissacratorio di quell’epoca, Vittorio Feltri ha dato a Berlusconi – per farla breve – dell’irriconoscente e del bugiardo.
Irriconoscente, perché l’uomo di Arcore, già Cavaliere del Lavoro, non ha mai ringraziato Feltri del consiglio datogli, a cavallo fra il 1993 e il 1994, quando era ancora alla direzione del pericolante Indipendente, di candidarsi alla guida del governo alleandosi con una coppia che pure più divisa non poteva essere: Umberto Bossi al Nord e Gianfranco Fini altrove.
Dio mio, Vittorio, mi viene voglia di dirti, e ti dico: volevi essere pure ringraziato per quella gabbia in cui gli consigliasti di ficcarsi, diversamente da altri come me che gli raccomandarono invece di non farlo? Una gabbia che, per sua stessa ammissione, ha poi impedito a Berlusconi di governare davvero, almeno come egli avrebbe voluto, cadendo peraltro la prima e l’ultima volta, rispettivamente nel 1994 e nel 2011, per il no opposto da Umberto Bossi ad una vigorosa stretta nella gestione delle pensioni anticipate di cosiddetta anzianità, come alla fine reclamò l’Unione Europea mentre i titoli del nostro debito pubblico volavano come coriandoli nelle borse internazionali. Una gabbia, aggiungo, della quale l’ex presidente del Consiglio non riesce ancora a liberarsi, neppure adesso che non c’è più il “ribelle” Fini, ma al posto di Bossi c’è alla guida della Lega il lepenista di conio padano Matteo Salvini. Che mi sembra deciso a vendere cara la pelle prima di prendere “ordini” da Berlusconi – dice il segretario leghista – alla maniera di Bossi, che pure gli ha procurato, ripeto, la prima e l’ultima crisi di governo.
Via, Vittorio, cerca di ragionare. E convieni con me che sarebbero stati altri i consigli da dare a Berlusconi quando si lasciò tentare dalla politica, come la “sventurata” monaca di Monza da Egidio nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Tu stesso, d’altronde, caro Vittorio, hai definito “un baraccone” quello che proponesti al Cavaliere di allestire e guidare. Con i baracconi, si sa, non si va sicuri e lontano. Lo stiamo vedendo con i migranti nel Mediterraneo.
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Sulla storia di Berlusconi bugiardo, che sarebbe “sincero solo quando mente”, come ha scritto Feltri senior, avrei voluto saperne di più, visto che lui lo ha frequentato più di me, che ne ho avuto qualche volta solo il sospetto, lo confesso, ma mai prove dirette, e degne di questa parola.
Ne ebbi il sospetto, per esempio, quando mi scontrai in diretta televisiva da direttore del Giorno, nel 1992, con Gianfranco Funari. Che mi aveva lasciato dare del “picciotto”, senza difendermi, da un ospite di studio del Biscione che contestava la difesa da me fatta del povero Calogero Mannino, destinato ad essere processato ma anche assolto dall’accusa di mafia. Berlusconi prima mi mandò Adriano Galliani e poi mi telefonò per rammaricarsi dell’episodio e darmi ragione. Ma qualche giorno dopo Funari nella sua trasmissione commentò il putiferio politico creatosi con quel mio abbandono del suo salotto in diretta- un putiferio salito di tanti decibel da fare chiedere la testa del conduttore dal giornale ufficiale della Dc guidato da Sandro Fontana– annunciando al suo pubblico di avere ricevuto nella notte gli incoraggiamenti telefonici di Berlusconi in persona.
Non presi, anzi non volli prendere sul serio, conoscendone il carattere fumantino, il sempre debordante Funari. Al quale intanto, rispondendo ad una lettera di presunto chiarimento in cui si definiva modestamente “giornalaio” e non giornalista, avevo chiesto che cosa gli avessero mai fatto gli edicolanti per meritarsi un simile torto.
Il sospetto di una bugia di Berlusconi mi ricomparve quando l’allora comune amico Gianni Letta mi propose una “bella e ampia intervista” del Cavaliere sui problemi dell’editoria televisiva e stampata in cui avrei potuto porgli una domanda sull’episodio Funari per consentirgli di prenderne le distanze. Naturalmente rifiutai dicendo che per quel dissenso potesse e dovesse bastare un comunicato, non una mia domanda nella cui risposta Funari avrebbe potuto scorgere e indicare un semplice, quasi doveroso atto di cortesia nei miei riguardi. E così il dubbio sulla bugia sì o bugia no rimase appeso per aria, anche se quel comunicato che avevo proposto, piuttosto che l’intervista, non arrivò mai.
A sostegno della convinzione fattasi da Vittorio Feltri potrei dirgli che una volta Bettino Craxi, pur insofferente quando un interlocutore gli parlava criticamente di Berlusconi, ritenendo che solo lui potesse farlo, come avviene di solito con un familiare stretto, mi disse che “Silvio è bugiardo”. Ma mi aggiunse subito: “Un simpatico e magnifico bugiardo”, con due aggettivi quindi che praticamente annullavano effetto e significato all’accusa. Poteva insomma aver detto bugie, come può capitare a tutti, a fin di bene, col diritto quindi alla comprensione e all’assoluzione.
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Una illustre e imprevedibile vittima delle celebrazioni in vita di Berlusconi è Eugenio Scalfari, processato per direttissima dal Fatto Quotidiano per avere raccontato che, una volta trovato a fine aprile del 1991 l’accordo fra lo stesso Berlusconi e Carlo De Benedetti con la mediazione di Giuseppe Ciarrapico sulla divisione delle aziende editoriali della Mondadori, fra le quali la Repubblica, dopo che il Cavaliere ne aveva acquisito il controllo, egli provvide personalmente a sciogliere l’ultimo, miserabile nodo rimasto: chi dovesse accollarsi i 50 milioni di lire di spese legali sostenute sino ad allora dalle parti.
Il nodo fu sciolto con l’assunzione delle spese da parte di Berlusconi in cambio dell’impegno “d’onore” di Scalfari di trattarlo come un socio, informandolo di ogni notizia che lo riguardasse prima di pubblicarla su Repubblica, fermo però restando il diritto dei suoi giornalisti di occuparsi lo stesso di lui e di scriverne comunque avessero ritenuto opportuno, anche dopo avere sentito la sua campana. Un impegno – ha precisato Scalfari – decaduto con la nomina di Berlusconi a presidente del Consiglio, nel 1994. Il trattamento da socio durò quindi tre anni. Abbastanza, per Il Fatto, per dirne quattro a don Eugenio e applicargli ai polsi manette per fortuna solo di carta, come la sua Repubblica.