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Che cosa succede a Mosul nella eterogenea coalizione anti Isis

Il New York Times ha una vignetta simpatica che riassume bene la situazione a Mosul, dove un coalizione eterogenea sta orchestrando la più grossa offensiva della sua storia contro lo Stato islamico. La vignetta ironizza proprio sulla composizione dei soldati che andranno a scacciare il Califfo dalla sua capitale.
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UNA COALIZIONE ESPLOSIVA

Il Wall Street Journal scrive della stessa questione e parla delle tensioni in seno al raggruppamento, che in linea teorica dovrebbe avere un comando supremo statunitense, ma che in realtà è composto da un mixage esplosivo. Soldati iracheni, qualche milizia tribale della piana della Ninive (la provincia di Mosul), le brigate dei cristiani assiri come le Npu (addestrate dai contractors americani della società Son of Liberty), le forze dei Peshmerga curdi, una milizia turcomanna aiutata dalla Turchia, i curdi Pak iraniani, i gruppi paramilitari sciiti (già accusati in passato di vendette contro i sunniti, restano una delle realtà più forti e richieste da Baghdad) e una sequela di team di forze speciali occidentali di cui escono immagini continuamente (alla conta: americani, tedeschi, canadesi, australiani, francesi, finora).

Anche da una descrizione sommaria, si capisce che sono gruppi che hanno interessi e agende diversi, a tratti contrapposti, e che il fronte, oltre che il problema del nemico, ha quello di reggere internamente. Per esempio, alcuni curdi Peshmerga hanno accusato il governo iracheno di “inazione”, altri hanno detto che l’esercito regolare sta combattendo meglio del mese scorso, mentre Baghdad è impegnato anche a bilanciare la troppa efficienza e il troppo spazio che Erbil sta prendendo sulla battaglia e soprattutto tra l’opinione pubblica internazionale. Un altro esempio: nel pomeriggio di martedì migliaia di manifestanti, mossi dal movimento sadrista di Moqtada al Sadr (il potente chierico sciita e politico), si sono riuniti davanti all’ambasciata turca a Baghdad per fare pressioni affinché Ankara molli il proprio impegno nell’offensiva. La Turchia dà sostegno diretto a un gruppo di miliziani turcomanni con un nome pretenzioso, “I guardiani della Ninive”, che hanno ricevuto addestramento e consulenza dalla forze speciali turche: Recep Tayyp Erdogan è ostinato a voler mettere il cappello la sua sulla campagna, perché sostiene che deve difendere “i fratelli arabi sunniti, turcomanni e curdi di Mosul” (“ma come, i curdi?” si dirà: sì, perché non sono esattamente gli stessi a cui fa la guerra in patria e in Siria). Mentre i sadristi manifestavano nella capitale irachena, il governo di Ankara faceva sapere che i suoi caccia, insieme agli Apache americani, avevano bombardato vari obiettivi a Mosul, e per questo genere di raid il coordinamento deve necessariamente passare per i comandi di Washington, dunque da che parte stanno gli americani che parlano di un’operazione a guida irachena per riprendere la città? (Un po’ con tutti e con nessuno).

IL TEST DEFINITIVO PER LA STRATEGIA DI OBAMA

“Ci saranno alti e bassi” ha detto Barack Obama parlando durante le visita alla Casa Bianca del premier italiano Matteo Renzi. Il Nyt scrive che la dottrina-Obama, quella annunciata nel 2014 ai cadetti di West Point che, in sintesi, prevede di aiutare militarmente altri paesi tenendo al minimo il coinvolgimento e senza impiegare i propri soldati (le forze speciali fanno eccezione), sarà messa a dura prova: “Mosul è il più grande esempio di un modello di contro-terrorismo che l’amministrazione Obama ha messo in atto dall’Afghanistan alla Libia”, il leading from behind come amano definirlo i critici. E non solo sul piano della battaglia, ma anche e soprattutto su quello della ricostruzione, ossia sull’eredità che il presidente lascerà come leader, come segno sull’Iraq (e sui suoi cittadini), dove ha intrapreso la difficile guerra al terrorismo fattosi stato. Su questo pesa la difficile gestione della Coalizione, sia in queste fasi operative, sia in quelle successive che, quando sarà, riconsegneranno a Mosul un’amministrazione diversa da quella dei jihadisti.

POI C’È IL NEMICO VERO

Tra tutte queste problematiche, poi c’è la realtà del nemico. Lo Stato islamico è pronto a difendersi da tempo, e soltanto nel primo giorno di avanzata, lunedì, ha lanciato una decina di autobomba e un’infinità di proiettili di mortaio (l’artiglieria pesante e i carri armati rubati al regime arriveranno). Josie Ensor, la corrispondente del Telegraph embedded con i Peshmerga, martedì raccontava su Twitter che nello stesso momento in cui i curdi dichiaravano liberato un villaggio, sono piombate sui combattenti tre autobomba e colpi di mortaio (ironizzava, “il momento perfetto per un selfie?”, per una foto scattata mentre sullo sfondo c’erano ancora le fiamme e il fumo delle esplosioni). Secondo i reporter del Washington Post, dopo una prima giornata in cui l’avanzata è filata liscia, da martedì sono iniziate le difficoltà: un generale iracheno però ha detto alla Cnn che ci vorranno due mesi, ma secondo altri analisti è uno scenario ottimistico; a proposito di analisti e ottimisti e di tutto quello che si è detto finora, Michael Knights su Foreign Policy ha scritto che riprendere Mosul sarà facile, il difficile sarà poi mantenere la pace. Intanto però c’è il campo. Per capirci, il miglior reparto dell’esercito di Baghdad, la Divisione Dorata, si trova ancora a più di 10 chilometri dalla periferia cittadina (dicono i comandanti di queste specie di forze speciali irachene che avrebbero potuto procedere anche oltre, se non fossero bloccati perché i curdi non hanno avanzato dove dovevano secondo i piani, ma siamo in quel rimbalzo di accuse e screzi da cui è caratterizzata l’offensiva). Secondo alcuni commenti raccolti dalla Reuters tra i funzionari americani, Washington crede che oltre agli ordigni improvvisati, sia quelli sulle auto che quelli con cui sono state minate le vie cittadine (tre morti tra i curdi nei primi tentativi di bonifica, martedì), oltre agli armamenti di cui già dispone, lo Stato islamico potrebbe usare anche armi chimiche rudimentali – è già successo a Qayyarah, a sud di Mosul, a fine settembre.


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