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Chi agita le acque del Mar cinese meridionale

La Cina è partita alla conquista del proprio spazio vitale reclamando la propria sovranità sull’intero Mare Cinese Meridionale. Le altre nazioni del Sud Est asiatico lasceranno fare mentre i cinesi si portano via le immense risorse energetiche, commerciali e ittiche da cui dipende la loro stessa sopravvivenza?

Abbiamo già discusso qui degli immensi lavori di costruzione intrapresi da Pechino per la realizzazione di grandi isole artificiali nel Mare Cinese Meridionale. Lo scopo militare di queste isole è evidente, anche se è stato sistematicamente negato. Ma le motivazioni economiche che spingono il governo Xi a tentare di annettersi buona parte dei tre milioni e mezzo di chilometri quadrati di oceano sono più profonde, e anche più destabilizzanti, di quelle puramente militari.

La Convenzione ONU sul diritto del mare (ratificata da tutte le nazioni che si affacciano su queste acque meno Taiwan) stabilisce che ogni nazione abbia diritto allo sfruttamento economico esclusivo delle risorse marine che si trovano entro le 200 miglia nautiche (370 km) dalle proprie coste. Il Mare Cinese Meridionale, essendo generalmente più ampio di 400 miglia, non dovrebbe creare problemi. Almeno in teoria. Ma nel mezzo sorgono gli arcipelaghi delle isole Paracel e Spratly, che secondo Pechino sono da secoli parte integrante della nazione cinese. Inoltre, come abbiamo visto nel precedente articolo, a ribadire il concetto sono spuntate come funghi una serie di basi militari cinesi costruite su piattaforme coralline rialzate artificialmente sopra il livello delle acque.

Il Vietnam contesta questa posizione, sottolineando che, prima del 1947, non si era registrata alcuna pretesa di sovranità cinese in quest’area. Inoltre, sostiene di avere documenti che comprovano il possesso vietnamita di entrambi gli arcipelaghi a partire dal diciassettesimo secolo. Le Filippine, dal canto loro, pretendono le Spratley sulla base della vicinanza geografica alle proprie coste e portano un’identica motivazione per la propria rivendicazione sull’atollo Scarborough, che la Cina considera suo. Malesia e Brunei, intanto, rivendicano il diritto su tutti i tratti di mare entro la zona di sfruttamento economico esclusivo stabilito dall’ONU, parte delle Spratly incluse.

Non si tratta certo di polemiche di principio per rivendicare sterili isolotti. La posta in gioco è molto più alta. Vediamo perché.

RISORSE ITTICHE

Gli studi del Dipartimento Ambiente e Risorse Naturali filippino hanno dimostrato che questo specchio d’acqua mantiene un terzo della biodiversità marina del mondo. Studi internazionali hanno individuato 3365 specie differenti di fauna ittica, l’equivalente salato della biodiversità dell’intera foresta amazzonica.

Il pesce pescato in queste acque offre lavoro a 3,7 milioni di marinai e pescatori. Sfama centinaia di milioni di persone residenti nelle dieci nazioni che lo circondano grazie a 16,6 milioni di tonnellate di pesce pescato ogni anno. Il prelievo è oggi ostacolato dalle corvette cinesi, che – seppure in acque formalmente internazionali – minacciano ed allontanano sistematicamente i pescherecci battenti differenti bandiere.  Ma in quelle acque non sono infrequenti scontri anche fra altre nazioni: l’Indonesia ha più volte distrutto pescherecci vietnamiti e filippini colti troppo vicino ai confini delle proprie acque territoriali.

Intanto, l’ecosistema stesso è messo in pericolo dall’eccessivo prelievo dei pescatori cinesi, che stanno rastrellando pesce in quantità superiori a quanto l’equilibrio della fauna e della flora marina riesca a rimpiazzare.

RISORSE COMMERCIALI

Il Mare Cinese meridionale è la seconda principale rotta commerciale del mondo intero. Oltre il 50% di tutto il tonnellaggio del carico mercantile del pianeta passa attraverso gli stretti di Malacca, di Lombok e di Sunda che lo delimitano.

Il petrolio greggio attraversa queste acque in misura pari a 11.0 milioni di barili al giorno, la maggior parte dei quali (10.4 milioni) proviene dal Golfo Persico. Metà di queste petroliere hanno destinazione Hong Kong mentre quasi tutto il resto punta su Giappone (3.2) e Corea del Sud (2.4).

Anche 170 miliardi di metri cubi di Gas Naturale Liquefatto attraversano queste acque ogni anno. 60 miliardi di questi giungono dagli impianti di liquefazione del Golfo Persico, 25 dall’Australia e 8 dall’Africa. Il resto viene prodotto dalle nazioni che lo circondano. 96 miliardi sono destinati agli impianti di rigassificazione del Giappone, 40 vanno in Corea. Infine, 17 a testa approdano tra Hong Kong e Taiwan.

RISORSE ENERGETICHE

Proprio a causa delle continue dispute, le prospezioni geologiche sottomarine sono difficili o mantenute segrete. Non è quindi facile stimare il reale potenziale energetico del Mare Cinese Meridionale. Secondo l’EIA statunitense, in queste acque si trovano 11 miliardi di barili di petrolio e 5400 miliardi di metri cubi di gas naturale solo considerando le riserve provate e probabili. Ma secondo l’U.S. Geological Survey, le aree ora inesplorate nasconderebbero altre risorse comprese fra 5 e 22 miliardi di barili di petrolio e fra 2000 e 8200 miliardi di metri cubi di gas. Parliamo di riserve paragonabili a quelle dell’Arabia Saudita.

L’ultima stima pubblica cinese, prodotta nel 2012 dalla China National Offshore Oil Company, valuta che sotto l’intera area si nascondano addirittura 125 miliardi di barili di greggio e 14000 miliardi di metri cubi di gas. Su questo tema, da quattro anni, a Pechino è sceso il silenzio stampa.

In parallelo, il veloce tasso di sviluppo dell’intero bacino asiatico, seppur rallentato negli ultimi anni, continua a crescere in media del 2,6% ogni anno e si prevede che nel 2035 arriverà rispettivamente al 30% ed al 20% del consumo mondiale di petrolio e di gas. Per quella data, il 90% delle esportazioni di combustibili fossili prodotti dal Medio Oriente transiteranno per queste acque.

Intanto la Cina continua la sua partita a Go, il tradizionale gioco di posizione in cui sono maestri.


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