Nei giorni scorsi abbiamo assistito ad un serrato confronto sulle stime di crescita per il 2017 che secondo il governo potrebbe arrivare a toccare l’1% sulla base delle misure da inserirsi nella manovra per l’anno prossimo, capaci di generare uno 0,4% di Pil in più, partendo da un dato tendenziale dello 0,6% e che, invece, secondo l’Upb non produrrebbero un effetto superiore ad uno 0,2%,, dal momento che sempre nello stesso organismo si stima un tendenziale dello 0,7% al netto degli interventi governativi.
Il responsabile del dicastero dell’Economia ha voluto minimizzare la “divergenza di opinioni” – come l’hanno definita all’Ufficio – affermando che esse in realtà fanno riferimento a scostamenti molto limitati fra i due modelli previsionali che tuttavia potrebbero portare l’Upb a non validare il documento programmatico dell’Esecutivo, con riflessi non del tutto irrilevanti nella trattativa fra l’Italia e la Commissione Europea per l’ottenimento dei margini di flessibilità richiesti dal nostro Paese.
Ora, premessa la fin troppo ovvia considerazione che una disputa su un differenziale di uno 0,2% di incremento del Pil – necessariamente ristretta ad un gruppo limitatissimo di addetti ai lavori – non appassiona affatto la grande opinione pubblica italiana che anzi, e probabilmente, ne ignora anche l’esistenza, ci chiediamo e chiediamo ai lettori: perché poi le previsioni dell’Ufficio parlamentare – costituito peraltro da autorevoli economisti – dovrebbero essere più attendibili di quelle del governo?
Certo, anche queste ultime poi hanno registrato nel corso degli anni scostamenti e riduzioni rispetto alle previsioni iniziali, anche se talvolta qualche revisione in aumento operata (a posteriori) dall’Istat dovrebbe indurre cautela, come ad esempio avvenuto per il Pil del 2014. E tuttavia l’esecutivo dispone di una serie di indicatori forniti dalle articolazioni della macchina statale che sembrano in grado di ridurre il margine di errore. Voglio ricordare inoltre che, leggendo sul sito dell’Upb il suo programma di lavoro per l’anno in corso, si legge che esso fra l’altro contempla il “completamento degli strumenti necessari per le valutazioni delle previsioni macroeconomiche, il potenziamento del ruolo dell’Upb e la messa a regime della sua struttura organizzativa”. Costituito nel maggio del 2014 ed entrato in attività nel successivo mese di settembre, l’Upb probabilmente sconta una fase peraltro comprensibile di una ancora parziale messa a regime, come potrebbe evincersi dal suo stesso programma di lavoro per il 2016.
Il governo, invece, dai report sulla spesa di cassa della Ragioneria generale dello Stato, da quella effettiva dei ministeri, e dai dati provenienti da una molteplicità di altre istituzioni del Paese può calcolare con crescente precisione l’andamento tendenziale del pil e l’impatto macroeconomico delle misure previste. Inoltre notizie sui trend della produzione e degli ordini delle imprese industriali, il governo, oltre che dall’Istat, potrebbe riceverle in anticipo anche da altri canali, consultando direttamente grandi gruppi industriali, l’Agenzia delle dogane per le esportazioni – prima che queste comunichino i loro dati all’Istat – la Banca d’Italia per le erogazioni creditizie. Insomma, l’Esecutivo ha a disposizione una serie di strumenti e canali per calibrare al meglio le sue previsioni macroeconomiche o almeno per ridurre al massimo i suoi margini di errore.
Propaganda, allora quella del ministro Padoan come afferma qualche forza di opposizione? O un espediente previsionale il suo per ottenere margini di flessibilità aggiuntiva in sede Ue? Personalmente non lo crediamo, ma se anche fosse – nei limiti naturalmente della massima sobrietà previsiva – vi sarebbe forse da scandalizzarsi? Ma non vi ricorrono in varia misura tutti i Paesi dell’Eurogruppo? E non è forse vero che anche il Fondo Monetario internazionale oscilla nelle sue previsioni che vengono aggiornate anche più volte in uno stesso anno, a seconda dell’andamento effettivo dell’economia reale?
Allora, ribadendo l’auspicio che tutti i soggetti variamente impegnati per ragioni d’ufficio a formulare previsioni e valutazioni sul trend macroeconomico del Paese si sforzino anche di conoscerne l’economia reale – visitandone periodicamente i centri di produzione più significativi divisi per comparti, territori, cluster maggiori, collegamenti interaziendali e volumi di esportazioni – dobbiamo rassegnarci a considerare del tutto inutile l’invito che pure rivolgiamo a quegli stessi soggetti ad evitare scontri dialettici e inutili puntigliosità, frutto spesso di orgogliosi arroccamenti nelle proprie fortezze metodologiche? Ma agli occhi della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica italiana, quando ne risulti informata, quelle pur raffinate diatribe appaiono soltanto come noiose dispute fra iniziati.