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La crisi (irreversibile) dell’Unione Europea

Secondo un noto Centro Studi italiano, la moneta unica europea è costata, dal 2003 al 2014, l’11% di Pil in meno per tutta l’area euro e 18 milioni di disoccupati in più. A causa del solo accordo di Maastricht, invece, abbiamo perso, sempre in tutta l’Ue a moneta unica, dati l’obbligo di eliminazione del deficit e il taglio degli investimenti, otto milioni di occupati e un ulteriore 5% di Prodotto Interno Lordo. Inoltre, il rapporto del suddetto Centro Studi ci dice che il tasso di disoccupazione medio Ue, sempre alla fine del 2014, è stato di circa l’11,6%.

Con la parità con il dollaro, la disoccupazione Eu dell’area euro sarebbe stata del 5,8%, più o meno quello degli Usa in quella fase. Quindi, una politica monetaria di  eccessiva sopravvalutazione della moneta comune europea ha bloccato l’export e, contemporaneamente, il mercato interno. Oltre, ovviamente, che a creare le condizioni del peggioramento dei bilanci pubblici sia in termini di deficit che di debito. Sempre alla fine del 2014, infatti, l’area euro aveva un deficit pubblico totale di -269 miliardi che, senza l’inserimento della moneta unica, si sarebbe trasformato addirittura in un surplus di +165 miliardi di euro, con una differenza di ben 445 miliardi. In termini di percentuale del Pil, la differenza sarebbe di ben 4,1 punti mentre, per quanto riguarda il debito pubblico, e sempre per l’area euro, avremmo avuto 3000 miliardi di euro in meno. Solo per l’Italia, ben 400 miliardi di debito pubblico in meno.

In questa ipotetica condizione, tutto il male di oggi sarebbe stato evitato se non ci fosse stata la sopravvalutazione dell’euro sul dollaro. Allora, non ci sarebbe stato l’arrivo massiccio dell’onda di crisi finanziaria che proveniva dagli Usa, prima con il fallimento di Lehman Brothers il 15 settembre 2008 e poi con le crisi bancarie a catena in Europa, che hanno messo in crisi le finanze pubbliche dei principali governi europei. Dato che i governi Ue erano abituati, tutti, a prendere in prestito direttamente ingenti somme dal sistema bancario, si può immaginare l’effetto della crisi finanziaria e creditizia sul budget delle varie nazioni europee.

Ricordiamoci poi qui che Washington non ha mai amato l’euro, anzi ha sempre ritenuto lo stesso progetto unitario “fantasioso e inutile”, come ebbe a dire George Bush I nei suoi public papers recentemente pubblicatiLa stessa Ue, nei suoi documenti ufficiali, dice, tra le righe, che l’onda della crisi finanziaria è arrivata dagli Usa, e che essa stessa, come Unione Europea,  ha compiuto gravi errori. Sempre secondo i documenti ufficiali della Unione, gli errori sarebbero stati:

  • La troppa attenzione al disavanzo pubblico di bilancio su base annua, senza curarsi troppo del debito pubblico nella sua interezza. I governi Eu presentavano, secondo le norme europee, bilanci annui ridotti per avere i finanziamenti comunitari, poi il debito pubblico ovviamente aumentava lo stesso, e allora arrivavano i guai veri. Il mito ingenuo che la crisi non fosse strutturale e che fosse possibile gestirla con qualche trucco cosmetico ha portato, grazie anche alla logica di funzionamento della Ue, al declino  attuale. Che è stato innescato dalla rapidissima crescita degli interessi sui titoli del debito pubblico dei Paesi  del sud della Ue.
  • Vi è stata inoltre una scarsa sorveglianza della competitività e degli squilibri macroeconomici, sempre secondo i papers della Ue. Grazie della notizia. Ma dalle disarmonie economiche europee, per usare una vecchia terminologia del nostro vecchio e straordinario filosofo Mario Calderoni, qualcuno sempre ci guadagna e qualcun altro perde. Non vi è stata mai una Europa solidale nelle crisi, ma solo nei “momenti di sole”. Quindi, tra i paesi perdenti, abbiamo avuto un crescente indebitamento del settore privato, non controllato grazie al mito dell’autonomia delle imprese, e quindi un crescente indebolimento delle banche.

Gli altri Paesi Ue “vincenti” si prendevano le quote di mercato dei perdenti.  Anche in questo caso, invece di creare sanzioni draconiane che peggiorano la malattia economica, si sarebbero dovute sostenere le economie più deboli e maggiormente squilibrate nell’interscambio con gli Usa. Gli americani esportavano la loro massa di crediti inesigibili, mascherati da nuovi titoli, verso l’Ue, il nemico finanziario che aveva sognato di ridurre il dollaro a moneta ancillare dell’euro.

C’è stata anche questa guerra geopolitica dentro la crisi della moneta europea. Peraltro, la Banca Centrale Europea aveva la finalità di mantenere la stabilità finanziaria, ma non poteva per statuto comprare, come fanno tutte le banche di emissione, debito pubblico da altri Paesi esterni alla Ue. È questo il modo principale che hanno le banche centrali per eliminare in partenza i tentativi speculativi contro di loro.

Da noi poi, come nelle altre economie del sud Europa, la concorrenza estera ha tenuto bassissimi i salari e la nostra struttura politica e economica non ha pensato ad altro, nel gestire la concorrenza per le esportazioni, ad abbassare i redditi da lavoro fino quasi al livello del concorrente peggiore.

Un altro elemento di autocritica pubblica della Ue è quello di un meccanismo decisionale lento: le piccole scosse della crisi globale sono state lette, dall’establishment europeo, come fenomeni isolati e non come un problema geo-economico unitario. Ecco quindi la lentezza e, spesso, l’inefficacia delle “soluzioni” della Ue.

E tutto questo di fronte a un “mercato”, se così possiamo chiamarlo, di investitori che, appena hanno visto la crisi al Sud, hanno giocato al ribasso o se ne sono andati in un attimo. Bei tempi quando il Tesoro, giustamente, acquistava l’invenduto delle aste dei titoli di debito della Banca d’Italia. E così non creava affatto inflazione, è bene dirlo.

Ma oggi i mercati sono veloci come gli sciacalli, che odorano i cadaveri, gli Stati invece sono stati lenti come marmotte. È il vero problema della politica contemporanea.

Rendere lo Stato velocissimo, e capace di comprendere sia i mass-media avversi che le operazioni politico-militari per lui oggettivamente pericolose.

Dato poi che i titoli di debito pubblico  erano allora detenuti in gran parte dalle banche,  era possibile e facile il loro default.

E oggi c’è una nuova crisi che aleggia sul Vecchio Continente, quella dei debiti incagliati: in Portogallo, Italia e Spagna, ma anche in alcuni Paesi del Nord europeo, i non performing loans valgono oltre 540 miliardi di euro, arriverà quindi a breve un’altra crisi del debito europeo.

L’Ee oggi è di fatto  una “Europa degli Stati” di antica memoria gollista. Anche se essa  lo nega fortemente.

L’idea quindi di fare gli “Stati Uniti d’Europa” è una straordinaria sciocchezza: i Paesi che compongono l’Ue sono talmente diversi tra loro, e con una economia così differenziata, che i suoi “Stati Uniti” creerebbero più contrasto al loro interno che verso l’esterno, ovvero  gli Usa, la Russia, la Cina.

Senza nemmeno ricordare che l’America, per essere gli Usa di oggi,  ha dovuto subire una guerra civile amplissima,  i cui fuochi non si sono del tutto spenti anche oggi. L’Europa Unita, poi, e sto parlando dell’area Euro, sarà sempre più impigliata in un’area di deflazione strutturale che condanna noi, l’ Italia, con altri Paesi meno forti economicamente, ad un periodo indefinito di bassissimi tassi di crescita.

Gli altri Europei del Nord, invece, continueranno a crescere e, soprattutto, a non dover giocare nel nostro campionato, quello dei bassi salari e dell’export in condizioni di forte concorrenza, non protetta dall’euro. Cosa fare, dunque? Predisporre una lenta ma sicura uscita dall’euro, non aspettando il “cesarismo burocratico” della Ue e ridefinendo e proteggendo la nostra area di esportazioni.

Poi, usare i nostri titoli di credito come moneta alternativa, quando è possibile. E usare un certo protezionismo, ben mascherato, anche nei confronti della stessa Ue.

Infine, ripensare la nostra strategia globale, cosa che non abbiamo mai fatto. Le crisi economiche sono sempre crisi geopolitiche.

Finanziare poi progetti di upgrade tecnologico delle imprese con fondi statali, senza aspettare le pretese della Ue.

Proteggere fortemente, infine, i nostri giovani “cervelli” che se ne vanno. È vero che, come dicono alcuni liberisti-masochisti, che il mercato delle professioni oggi è globale, ma è anche vero che il costo della loro formazione è stato sostenuto dal nostro Stato e dalle nostre famiglie.

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