Era uno dei tasselli mancanti per il definitivo approdo della riforma Madia sui dirigenti pubblici: il parere reso dal Consiglio di Stato sullo schema di decreto legislativo in materia di revisione della disciplina della dirigenza pubblica, pur dando una formale luce verde al governo, pone una lunghissima serie di “condizioni e osservazioni”, financo estendendosi alla legge madre dell’agosto del 2015. I giudici di Palazzo Spada, infatti, nell’offrire un esaustivo excursus su come la dirigenza pubblica sia stata oggetto di numerose riforme nelle ultime decadi, in ben 114 pagine non risparmiano osservazioni critiche alle previsioni del governo, mirando alla concreta fattibilità della riforma.
Il testo, complesso e articolato, merita un’analisi attenta e ponderata dei vari elementi messi in luce. Tuttavia, qualche aspetto generale, utile a stimolare una riflessione condivisa, può essere evidenziato sin d’ora, a partire da una premessa importante. Il Consiglio, infatti, ricorda un’apparente ovvietà riaffermando che politica e burocrazia non sono nemici l’un contro l’altro armati, ma hanno il dovere di collaborare al fine di raggiungere l’obiettivo del pubblico interesse, ognuno nell’ambito delle sue prerogative costituzionali, dato “un modello composito di regolazione dei rapporti tra politica e amministrazione: i dirigenti esercitano le proprie funzioni amministrative in modo imparziale per il perseguimento efficace ed efficiente degli obiettivi che i politici, nell’esercizio dell’attività di indirizzo, pongono in attuazione degli scopi di interesse pubblico definiti dal legislatore […]. La Costituzione delinea una relazione tra organi politici e dirigenziali che si struttura secondo la logica non della separazione o sovrapposizione delle funzioni ma secondo quella della complementarietà e differenziazione funzionale dei compiti. I politici e i dirigenti esercitano un’attività diversa ma coordinata verso risultati comuni”. Repetita iuvant, insomma.
Quali, allora, i punti salienti? Intanto un colpo al mito delle nozze coi fichi secchi. Se “il legislatore delegante e conseguentemente il governo intendono approvare una riforma così radicale con il principio della invarianza di spesa”, dicono i giudici del collegio speciale, si deve segnalare “come tale principio sia uno di quelli in cui più si riscontrano le difficoltà connesse alla fattibilità concreta della riforma. Non è sufficiente prevedere nuove regole di disciplina se poi non si prende in adeguata considerazione la fase di attuazione della riforma stessa e l’impiego di risorse finanziarie e umane che essa può richiedere”. Il sistema di valutazione, poi, pietra angolare di ogni organizzazione moderna: secondo il Consiglio “lo schema di decreto legislativo in esame [è] privo di regole relative a tale sistema, che pure ne dovrebbe costituire parte essenziale”, tanto che “la sua omissione rischia di comprometterne l’attuazione e, quindi, il raggiungimento delle stesse finalità prefissate dallo stesso legislatore”. Non è questione di poco conto, dato che uno dei punti critici dell’impianto di riforma, a detta di molti commentatori, è aver slegato la valutazione del dirigente dal suo mantenimento in servizio, aprendo la strada ad una pericolosa precarizzazione della dirigenza che potrà risentire in modo stringente dell’influenza diretta della sfera politica, con rilevanti ricadute sul principio della imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione.
Non solo: avendo previsto una decadenza dal ruolo unico della dirigenza (leggi: avvio al licenziamento) per il dirigente al quale non venga rinnovato un incarico per mera inerzia del nominante, il Consiglio auspica che “il legislatore delegato potrebbe, nondimeno, anche per evitare possibili declaratorie di incostituzionalità della norma, circondare la previsione da un più forte sistema di garanzie” per il dirigente. In parole povere, quello su cui sindacati e associazioni di dirigenti si sono sgolati per circa due anni, nel mezzo della tempesta mediatica che, quasi come un’epidemia di febbre gialla, ha contagiato parti importanti della stampa, delle televisioni e delle opinioni pubbliche, tutte coalizzate contro i dirigenti pubblici, le cui infinite colpe si riassumevano, sostanzialmente, nel godere dell’inaccettabile privilegio di un lavoro a tempo indeterminato. Non può non rilevare, allora, come i giudici amministrativi ricordino che “nel diritto privato la regolazione del lavoro dirigenziale si fonda su un legame fiduciario tra datore di lavoro e dirigente che fa sì che il relativo rapporto non sia assistito da garanzie di stabilità. Nel diritto pubblico tale regolazione ha avuto una complessa e lunga evoluzione, il cui approdo finale è stata la costruzione di un modello diverso da quello privatistico al fine di assicurare il rispetto [dei] principi costituzionali che presiedono alla differenziazione funzionale tra attività gestionali e politiche”.
Senza entrare in ulteriori dettagli, basti sapere che quasi ogni aspetto del decreto viene investito da una serie di critiche – costruttive, certamente – del Consiglio: funzionamento della Scuola Nazionale di Amministrazione, organizzazione e funzionamento delle commissioni della dirigenza pubblica, mancanza di motivazione in relazione alla scelta di Tizio o Caio, mancanza di adeguata ricognizione delle competenze interne prima di procedere a nominare, con aggravio di spesa, un dirigente in quota esterna, fino a rilevare come manchi “un meccanismo che garantisca che gli organi di indirizzo politico predetermino in modo idoneo e tempestivo gli obiettivi che i dirigenti devono poi concretamente attuare nel rispetto dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento”. Insomma, forse esagerano quei quotidiani che hanno parlato di un decreto smontato pezzo per pezzo da Palazzo Spada, ma una riflessione comune a questo punto si impone. E si impone, credo, una presa d’atto del governo del fatto che le tante osservazioni ricevute – attendiamo ora i pareri delle Camere – sono esattamente nel solco delle proposte avanzate dai sindacati e le associazioni dei dirigenti. Con un solo ed unico scopo: far funzionare la riforma e dare alla dirigenza quegli strumenti per fare di più e fare di meglio, a vantaggio del Paese e dei cittadini, senza inutili e controproducenti difese corporative fini a sé stesse. Non è tardi: porsi in ascolto e adottare quei correttivi che spingano per una modernizzazione della nostra macchina pubblica e che, soprattutto, riportino sul binario giusto la delicata relazione fra politica e dirigenza, in quadro di piena legittimità costituzionale e – non guasta mai – di buon senso, non solo eviterà costosi e infiniti ricorsi giudiziari, ma sarà l’occasione per costruire quelle condizioni per fare sempre più delle nostre amministrazioni una delle leve per far correre di più il Paese. È un gioco in cui vincono tutti: un’occasione da non sprecare.