Nelle acque delle Filippine c’è adesso uno scoglio in più. Anzi, una piccola costellazione di scogli. In più, perché pare sospeso il progetto di trasformarli in un’isola e una base militare. Cinese. Non sarebbe stata una sorpresa perché quell’arcipelago di scogli sorge, nel linguaggio neutrale dei geografi, nel Mar della Cina. È da sempre disabitato, ma adesso quelli di Pechino vogliono appropriarsene non solo nel lessico delle carte geografiche ma in modo assai concreto, costruendovi una base che faccia da contraltare alle forti, dominanti posizioni navali degli Stati Uniti in quella parte del mondo.
Un progetto che riguarda, o meglio deruba, diversi Paesi, dalla Malesia a Taiwan, dal Giappone al Vietnam.
Da parte cinese c’è un’arma nuovissima, che consiste appunto nel trasformare rocce sparse nell’oceano in isole vere e proprie, spalmandole di cemento e altri materiali in modo da congiungerle, consolidarle e farle assomigliare un po’ troppo a delle portaerei ferme. Di qui le tensioni e curiosi cambi di campo nell’area. La più sorprendente, significativa e clamorosa è il Vietnam, l’unico Paese ad avere sconfitto in guerra gli Stati Uniti e adesso il loro alleato più affettuoso, incluse le aperture di basi navali in luoghi resi famosi dalle operazioni militari di mezzo secolo fa.
Fra i più vecchi amici dell’America c’erano invece le Filippine. Ma adesso tutto potrebbe cambiare. I cinesi pare abbiano soprasseduto a quel caposaldo del loro ambizioso progetto. Lo si desume, non solo dalla sospensione dei lavori ma anche dal cambio di tono a Pechino. Che non è niente in confronto alle sorprendenti trasformazioni a Manila. Il presidente da poco in carica, Rodrigo Duterte, ha dato l’annuncio nel modo meno diplomatico possibile: insultando Barack Obama alla vigilia di quello che doveva essere il loro incontro. Non criticando qualche sua iniziativa, ma definendolo, in un pubblico discorso, in un termini che solo chi pratica la lingua tagalog può decidere se significhi, bonariamente, “figlio d’una cagna” oppure più rudemente figlio di una donna, ma di un “certo” tipo.
E questo perché? Perché l’uomo della Casa bianca aveva espresso pochi giorni prima critiche anche severe alla abitudine, venuta di moda nelle Filippine dopo l’arrivo di questo presidente di “guerra al crimine senza pietà”. Era un vecchio motto americano e significa tuttora pene severe, ma in tagalog si è trasformato in una licenza a uccidere. Anzi, un dovere.
Duterte è in carica da meno di cento giorni e già tra i tremila e i quattromila “fuorilegge” sono stati sommariamente giustiziati, se per processo si intende prima sparare e poi fare domande. Se ne incarica la polizia, ma anche dei vigilantes più o meno privati, nei ranghi di veri e propri “squadroni della morte”. Un po’ troppo per i gusti di un alleato e protettore che non è tenero con gli spacciatori di droga e attività simili. Obama gli aveva raccomandato però di starci un po’ più attenti, insomma di non esagerare, in nome dei diritti umani.
Non l’avesse mai detto. Da questo è nata la furia di don Rodrigo Duterte, che ha risposto sostanzialmente invitando Obama a “farsi i fatti suoi”. Né si è limitato a questo: ha esaltato la memoria di un suo predecessore, Ferdinando Marcos, che nei lunghi anni della sua dittatura si era dedicato a sistemi un po’ drastici. Per sottolineare meglio il proprio punto di vista Duterte ha pensato bene di richiamarsi a Hitler: “Ha massacrato tre milioni di ebrei. Da noi ci sono tre milioni di tossicodipendenti e sarei felice di massacrarli”. Un richiamo incauto e oltretutto impreciso, perché i milioni di ebrei non furono tre ma sei. Ma è l’intenzione che conta, soprattutto se unita a un’altra novità, che è quella di buttare via l’alleanza con gli Usa nella comune protezione dall’espansionismo cinese. “Non voglio – ha detto ancora Duterte – che le Filippine diventino un campo di battaglia fra Pechino e Washington. Se proprio vogliono battersi preferisco che lo facciano in Cina o a San Francisco”. L’ambasciatore cinese a Manila ha proclamato che !le nubi si stanno diradando e radioso sorge il sole”.
Capovolgimento delle alleanze? Per ora ci si potrebbe avviare verso una rottura dei rapporti diplomatici fra Washington e Manila. Provocato anche da uno scomodo richiamo di qualche filippino dalla memoria storica: al termine della loro guerra con la Spagna a fine Ottocento, gli Stati Uniti occuparono, oltre a Cuba, anche le Filippine. A differenza che a Cuba, gli indigeni si ribellarono e diedero vita a una feroce guerriglia. L’America incaricò i marines di debellarla e pare essi se ne siano incaricati con un po’ troppo zelo. Un famoso scrittore americano, Mark Twain, dedicò uno scritto a denunciare quegli abusi. Scava nella storia, ci troverai sempre ovunque un precedente scomodo.
(Pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)