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Ecco come gli americani rispondono al fuoco iraniano dei ribelli in Yemen

Mercoledì un cacciatorpediniere americano ha sparato contro tre istallazioni radar dei ribelli yemeniti Houthi lungo la costa meridionale del Mar Rosso, che divide la Penisola Arabica dall’Africa. È stato il cacciatorpediniere “USS Nitze” a lanciare i tre Tomahawk che hanno centrato gli obiettivi. Il Pentagono dice che la nave ha aperto il fuoco per rappresaglia, dopo che un’altra imbarcazione militare americana, lo “USS Mason” (anche questo un cacciatorpediniere), era finita sotto un attacco missilistico da terra, il secondo nel giro di quattro giorni. Domenica sera, infatti, altri due missili terra-mare erano partiti contro l’imbarcazione da una striscia di costa dello Yemen occidentale controllata dai ribelli indigeni sciiti zaiditi che lo scorso anno hanno messo sotto sopra il paese e contro i quali le forze arabe sunnite, guidate dall’Arabia Saudita, stanno conducendo una campagna militare di repressione (dura da marzo del 2015, e nonostante la generale disparità dei fronti, sauditi e alleati sembrano impantanati, i morti civili aumentano e sempre domenica è finito tra i target dei caccia di Riad addirittura un funerale a cui avrebbe partecipato un capo houthi: bilancio delle due ondate di raid, 140 morti, oltre 500 feriti). Dall’altra parte, gli Houthi, ricevono un sostegno meno diretto dall’Iran.

I MISSILI CONTRO LE NAVI AMERICANE

I missili sparati dalla terraferma sono non hanno colpito le navi americane, sia nell’attacco di domenica che in quello di mercoledì: la Mason ha anche sparato missili da intercettazione e aperto i sistemi di contromisura difensiva. Nell’area si trova anche la “USS Ponce”, che è una base galleggiante con diversi Marines a bordo. È la prima volta che gli Stati Uniti colpiscono direttamente nell’ambito del conflitto Yemen, nonostante stiano sostenendo le operazioni di cui Riad è capofila, fornendo dati di intelligence sia a terra sia via satellite. Tutte e tre le postazioni radar, che avrebbero aiutato i ribelli a tracciare le navi americane e per questo il Pentagono le individuate come obiettivi, sono state distrutte. Un funzionario americano ha confermato al New York Times che si trovavano in aree remote e prive di civili.

NERVOSISMO A WASHINGTON

La sottolineatura sui civili è una nota politica, visto che il coinvolgimento americano in Yemen al fianco dei sauditi ha fatto storcere il naso all’opinione pubblica, considerando l’alto numero di vittime civili. Dopo gli attacchi sul corteo funebre di domenica si è aperta anche una discussione all’interno dell’Amministrazione se sia giusto o meno continuare a rifornire di armi Riad. C’è un accordo da 1.15 miliardi  di dollari, che include carri armati e altri armamenti pesanti, su cui già c’è stata una mozione in Senato per bloccarlo, respinta a metà settembre: “Siamo complici e attivamente coinvolti con la guerra in Yemen” aveva dichiarato il senatore Rand Paul, uno dei più attivi tra i contrari. Il portavoce del Pentagono Peter Cook ha dichiarato che il presidente Barack Obama in persona ha autorizzato a fare fuoco, “per autodifesa” e “per proteggere il nostro personale, le nostre navi e la nostra libertà di navigazione in questo importante passaggio marittimo”. Tutto è avvenuto nella zona di Bab al Madab, la bocca che apre il Mar Rosso al Golfo di Aden, verso il Mar Arabico: uno snodo nevralgico dei traffici marittimi globali, visto che è quello percorso dalle navi che risalgono l’Oceano Indiano verso il canale di Suez e l’Occidente (le esportazioni di petrolio passano da qui, al ritmo di cinque milioni al giorno).

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PECHÈ LE NAVI AMERICANE HANNO SPARATO

Due sensibilità, oltre al valore strategico dell’area, potrebbero aver mosso gli americani a rispondere al fuoco. Primo un aspetto psicologico: il 12 ottobre era l’anniversario dei 16 anni dell’azione terroristica contro lo “USS Cole”, il caccia torpediniere che fu colpito con un barchino esplosivo dai terroristi della filiale yemenita di al Qaeda mentre era ormeggiato in rifornimento poco a sud, ad Aden, rientrato da una missione di pattugliamento sul Persico – e la storia, anche se differente, insegna, e Washington non vuole mettere in chiaro che non ha intenzione di lasciar finire sotto attacco le proprie postazioni senza far nulla. Secondo, il lato pratico: il primo ottobre un’altra unità navale è finita sotto l’attacco degli Houthi sempre in quella zona, la “Swift”, un’imbarcazione meno sofistica che gli Emirati Arabi hanno preso in leasing dagli Stati Uniti lo scorso anno per trasportare truppe e mezzi con rapidità – primo utilizzo, proprio in Yemen contro i ribelli. La Swift è costruita in alluminio, e per questo il suo scafo s’è incendiato completamente una volta colpito; gli emiratini non hanno parlato del numero di vittime prodotte dall’azione, ma potrebbero essere diversi anche considerando il calore che dev’essersi sviluppato all’interno del battello. Se nel caso delle navi americane la colpevolezza degli Houthi è solo (altamente) sospetta, nel caso della Swift è certa, visto che i ribelli se ne sono vantati con un video trasmesso sul loro canale televisivo: per quanto riguarda le azioni contro le navi americane i ribelli smentiscono ogni coivolgimento. Il Naval Institute americano ha pubblicato un’analisi fatta da Chris Carlson, ritirato top ufficiale della Defense Intelligence Agency, secondo cui ci sono pochi dubbi che a colpire la Swift sia stato un missile anti-ship C802 (ufficialmente il Pentagono non ha commentato) – in realtà anche diversi altri analisti concordano, osservando le evidenze sul battello.

I MISSILI IRANIANI

Il dettaglio dell’ordigno non è vezzo accademico: questo genere di missili sono di produzione cinese e non rientrano nelle forniture in dote all’esercito yemenita, e dunque se a spararlo sono stati i ribelli che controllano la costa da cui è stato lanciato, qualcuno glielo deve aver passato. I sospetti si dirigono solo sull’Iran, che ne possiede a bizzeffe, tanto che già nel 2006, durante il conflitto libanese, il gruppo paramilitare sciita Hezbollah – un braccio armato di Teheran – ne sparò uno contro la corvetta israeliana “Hanit”.

LA POLITICA AMERICANA

Cook ha dichiarato che le navi americane si trovano nella zona per “operazioni di routine”, ma è chiaro che erano lì per imporre deterrenza ed evitare questi spin-off del conflitto yemenita. E probabilmente per questo, dopo il terzo attacco dalla costa nel giro di due settimane hanno deciso di aprire il fuoco. Si apre una questione delicata: gli Houthi sparano sofisticati missili anti nave in uno delle rotte marittime più sensibili al mondo, e sono missili che l’Iran ha molto probabilmente forniti ai ribelli dall’Iran, a cui da sempre dà sostegno come a tutte le milizie armate sciite o che rientrano tra le sette dello sciismo (per esempio gli alawiti al governo in Siria). E che succederebbe se uno dei quei missili finisse su una delle petroliere che solca quel taglio di mare largo appena 30 chilometri? Se in America fossimo in un clima politico normale, la domanda basterebbe a scatenare la furia dell’opposizione, soprattutto in questa fase elettorale: farci politica sarebbe semplice, visto che Obama ha piazzato gran parte della sua legacy in Medio Oriente (e a livello internazionale) sull’accordo nucleare siglato con l’Iran e sulle successiva riqualificazione diplomatica che ha permesso a Teheran di vedersi sbloccati vari asset economici e finanziari prima sanzionati (“E visto dove finiscono quei soldi? In missili puntati contro le nostre navi!” potrebbe dire il candidato repubblicano di turno). Ma questa campagna presidenziale non è normale: mentre la Mason e la Nizte sparavano in Yemen, sul New York Times usciva un altro scandaloso scoop che impegnava più che la vicenda in Yemen gli sforzi di Donald Trump: il candidato repubblicano è stato accusato da due donne di averle palpeggiate senza il loro consenso.

(Foto: Wikipedia, la USS Nitze in navigazione)

 

 


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