Ahmed Osman è il loquace comandante del gruppo di ribelli siriani Sultan Murad, brigata turcomanna inclusa nel Free Syrian Army, che combatte il regime e lo Stato islamico. Lunedì in una registrazione audio inviata alla Reuters Osman diceva: “Se tutto va bene nel giro di 48 ore saremo a Dabiq”. Presa così sembra una normale dichiarazione operativa, ma invece va contestualizzata perché dietro si porta una simbologia enorme.
COS’È DABIQ
Innanzitutto, Dabiq: è un piccolo villaggio siriano che si trova a pochi chilometri dalla Turchia. Secondo l’escatologia islamica sarà il teatro della Malahim (tagliata un po’ con l’accetta, l’Apocalisse musulmana). La città è menzionata in un hadith (gli aneddoti sintetici sulla vita di Maometto) in cui il profeta annuncia che ci sarà una grande battaglia tra un esercito dei “migliori combattenti sulla terra” provenienti da Medina e quello dei romani, dove “romani” sta per cristiani. Uno scontro epico su cui lo Stato islamico ruota parte della sua propaganda fin dai tempi della sua fondazione – era lo stesso leader storico, Abu Musab al Zarkawi a parlarne. Il principale dei riferimenti mediatici del gruppo, una rivista in lingua inglese, è stata chiamata proprio Dabiq – un’altra, più nuova, si chiama Roma (Rumiyah, in realtà, con una forma antiquata) ed è ancora più ambiziosa e forse è stata creata per utilità, d’altronde, che ne sarebbe della narrazione e del proselitismo se prima o poi la città simbolo della propaganda cadesse e uscisse dal controllo del gruppo, e mica si potrebbe continuare a chiamare la rivista con il nome del luogo teatro di una sconfitta?
L’AVANZATA TURCA
Se tutto va come procede, come dice Osman, nei prossimi due giorni questo scontro apocalittico potrebbe concretizzarsi; almeno in parte, non per quel che riguarda le ragioni religiose dei due eserciti. Infatti quando il comandante turkmeno usa il plurale, significa che non sta parlando solo degli uomini del suo gruppo o delle altre brigate combattenti etnicamente collegate (sono quelle che sparavano ai due piloti russi che si erano eiettati dal jet abbattuto dai caccia turchi lo scorso novembre), ma include nel termine innanzitutto alcune fazioni combattenti di arabi sunniti sostenute dalla Turchia e poi unità dell’esercito regolare di Ankara. Ossia coloro che fanno parte dell’operazione Scudo dell’Eufrate, lanciata dal governo turco il 24 agosto con l’obiettivo di creare all’interno del territorio siriano una zona di salvaguardia libera dalla presenza dello Stato islamico. Secondo alcune stime su cui è improbo trovare conferme, tra marzo e aprile l’IS avrebbe spostato nell’area diverse centinaia di combattenti, uomini indottrinati e pronti a tutto, dunque la battaglia si prospetta lunga; di solito certe dichiarazioni ottimistiche come quelle del turkmeno vengono smentite nei fatti dalla resistenza dei baghadisti, che infestano le aree sotto attacco di cecchini, trappole esplosive, si battono con la spinta trascendentale del martirio (vedere per esempio Sirte, la roccaforte libica, che doveva cadere in due giorni e invece sono mesi che la battaglia procede), e stavolta sono ancora più motivati dai comandanti per il valore simbolico che il luogo rappresenta. E non importa che i nemici non siano “i romani”, anzi. Al momento la Turchia di Recep Tayyp Erdogan è considerata nemica tanto quanto gli apostati cristiani nella narrativa dei baghdadisti: e questo perché nonostante il presidente sia uno degli emblemi dell’islamismo politico conservatore al governo non è considerato abbastanza puro per le visioni del gruppo militarista radicale comandato adesso da Abu Bakr al Baghdadi. Anzi, è proprio aver tradotto l’Islam sharitico in una via di mezzo democratica (democratica, si fa per dire in Turchia), collusa o alleata (dipende dalle letture) con l’Occidente è una delle colpe di cui Baghdadi e i suoi accusano Ankara – per questo non l’hanno risparmiata negli attentati.
GUERRA E POLITICA
Anche Brett McGurk, il delegato della Casa Bianca per gestire i rapporti con gli altri Paesi che compongono la Coalizione internazionale che combatte contro lo Stato islamico, ha parlato in un tweet dell’avanzato filo-turca verso Dabiq, ce ne fosse conferma dell’importanza. E qui si apre uno scenario laterale, che disegna le relazioni tra Stati Uniti e Turchia. In realtà dietro all’operazione Scudo ha occultato, nemmeno troppo bene, un fine secondario, che è bloccare l’espansionismo curdo-siriano lungo i confini tra i due paesi: i turchi detestano i curdi siriani perché sono alleati del Pkk, con cui sono in guerra – nel weekend il partito combattente curdo ha ucciso due soldati turchi al confine con l’Iraq, i militari hanno reagito con operazioni nelle aree limitrofe che hanno portato alla morte di almeno 20 miliziani. Ma le milizie curde siriane dell’Ypg stanno da diversi mesi ottenendo il supporto, anche a terra, americano in un’ampia campagna militare con cui cercano – con buoni risultati – di liberare il nord del paese dalla presenza dell’IS. Ma si stanno prendendo troppo spazio per come la vede Ankara. E così, dal 24 agosto, Erdogan ha deciso di avviare un’azione per sostituire le attività delle Ypg con quelle di esercito e altri gruppi ribelli amici (come quello di Osman). L’idea ha molteplici sfaccettature, perché sostituirsi significa frenare le ambizioni curde, scacciare lo Stato islamico che ha più volte insanguinato la Turchia con gli attentati, e contemporaneamente mettere un piede stabile sul futuro della Siria.
L’ALTRA GUERRA IN SIRIA
Un’attività che però rischia di andare in concorrenza non solo con l’altra campagna anti-IS, quella americana via-Ypg, ma anche con la gestione dell’altro filone della guerra siriana, quella interna (in Siria c’è una guerra che gli americani, diverse nazioni occidentali tra cui l’Italia e vari paesi arabi combattono contro la realtà terroristica statuale dello Stato islamico e che si protrae fino all’Iraq, mentre contemporaneamente c’è il conflitto civile, dove le forze dei ribelli si oppongono al regime di Bashar el Assad e i suoi alleati, i russi e gli iraniani; da quest’ultimo filone arrivano in questi giorni le immagini tragiche di Aleppo, dove non c’è l’IS ma solo il conflitto politico tra regime e opposizioni). I due piani, la guerra civile e quella anti-terrore però spesso si sovrappongono. Aslı Aydıntaşbaş, editorialista di Cumhuriyet, ha scritto che secondo le sue fonti dopo un incontro tra Erdogan e Barack Obama a margine dell’assemblea generale delle Nazioni Unite, sul tavolo sarebbe finita una bozza di accordo bilaterale: gli americani garantiranno ad Ankara di muoversi come vuole e sotto la propria protezione sull’area nord-occidentale della Siria, dove sta già operando, a patto che non ci siano interferenze (tradotto, non si facciano la guerra) con i curdi che si trovano più a est. La Turchia piantata là in mezzo alla fascia settentrionale della Siria impedirebbe l’unificazione dei tre cantoni del Rojava, lo stato sognato dai curdi siriani: Afrin, a ovest, non potrà unirsi con gli altri due, quello di Jazira e di Kobane, controllati già dalle Ypg e dall’ala politica, Pyd. Ankara in realtà vorrebbe combattere i curdi come terroristi, ma non può farlo fino in fondo perché sono alleati fidati degli americani (è un’alleanza programmatica, anti-IS, poi si vedrà). Inoltre Washington, nel complicato ginepraio siriano (per usare una definizione molto in voga) ha anche dei soldati delle forze speciali che appoggiano la Turchia nell’operazione Scudo. Dunque questa potrebbe essere una mediazione accettabile per entrambi. La trattativa di cui parla Cumhuriyet permetterebbe la creazione della tanto cercata buffer zone in Siria, pallino della Turchia da anni e passata anche in mezzo alla campagna elettorale USA 2016 per bocca della candidata democratica Hillary Clinton.
I SIRIANI REINSEDIATI
Tutto al condizionale, la circostanza è complessa. Variabili: che cosa ne pensa Damasco, e soprattutto i russi? Mosca per il momento riprende con enfasi l’avanzata turca contro i terroristi, ma è chiaro che si tratta di un accordo puntuale e momentaneo. Per capirci, che cosa succederebbe se le milizie alleate della Turchia, dopo aver preso Dabiq, scendendo verso al Bab, proseguissero per qualche chilometro a sud verso Aleppo per dare manforte ai loro stessi compagni che fanno parte di quei gruppi ribelli martoriati dalla Russia? E dunque, oltre alle operazioni contro l’IS la Turchia perseguirà anche le proprie mire nell’altro filone della guerra, quello interno, quello contro il regime? E soprattutto, che e quanto controllo ha sulle milizie arabe come Ahrar al Sham che compongono parte dei boots on the ground dello Scudo? Intanto, comunque, coperto dal grido drammatico dei civili bombardati ad Aleppo che rimbalzano sui media mondiali, il piano turco al nord siriano procede col placet multilaterale. La scorsa settimana l’inviata della Stampa Marta Ottaviani (prossimamente in edicola il suo libro, “Il Reis”, dedicato al rais Erdogan) parlava della costruzione di un muro di confine per controllare il passaggio di profughi, che d’altronde, secondo gli intenti politici di Ankara in futuro potrebbero essere al sicuro e reinsediati in quella buffer zone (anche qui, ci sono altre due funzioni, bloccare i foreign fighters dell’IS e ostacolare i traffici dei curdi del Pkk). L’area è grande un migliaio di chilometri quadrati per il momento, ma il progetto di farla moltiplicare di superficie. Qualche giorno fa Erdogan ha spiegato che Ankara “sta spendendo i propri sforzi per creare una zona di sicurezza in territorio siriano”. “Se ci riusciremo” spiegava il reis, che lunedì ha esteso per altri tre mesi lo stato d’emergenza proclamato dopo il golpe di luglio e dunque s’è intestato speciali poteri militari, “allora gli abitanti delle tendopoli potrebbero essere reinsediati e fare ritorno alla terra siriana”. E come si integreranno questi siriani di ritorno, tendenzialmente ostili al regime (spesso è tra i motivi della fuga), con le dinamiche della guerra civile in corso?