L’intervista che il capo della polizia Franco Gabrielli ha concesso a Claudia Fusani de l’Unità l’otto ottobre scorso è molto importante e va discussa ampiamente.
Il primo elemento da notare è il rilievo che il prefetto Gabrielli dà all’informazione e alla controinformazione nella guerra via web del califfato.
La guerra online dell’Isis è, per certi aspetti, ancora più importante della guerreggiata sul campo. Così deve essere anche per noi. Adattarsi al nemico vuol dire spesso vincerlo, ce lo insegnavano anche i classici del pensiero strategico nell’antica Cina.
La propaganda via web di Daesh determina l’immagine che la struttura ha di sé e, soprattutto, la percezione che del califfato ne ha il nemico occidentale. Fare contropropaganda, e fatta bene, non moralistica o ideologica, è essenziale, per noi, per distinguere la verità dall’immaginario che Daesh vuole proiettare su di sé e, soprattutto, su di noi.
In effetti, e anche qui Gabrielli centra il punto, la guerra on line nasce inizialmente da una indicazione di Al Zawahiri, erede di Osama bin Laden a capo della “base solida”, Al Qaeda.
La vecchia Al Qaeda ha addirittura, nel suo particolare terrorismo senza stato, unito azione militare e propaganda, creazione dell’immagine di sé e modificazione utile degli atteggiamenti del nemico.
Il terrore blocca la reazione e confonde i pensieri, il terrore, esaltato o compiuto e comunque comunicato, è azione militare esattamente come il lancio di un missile dal manpad per atterrare un aereo nemico.
La propaganda del califfato tende, in effetti, a molteplici obiettivi simultanei: proiettare di sé una immagine vincente, screditare gli altri gruppi jihadisti, sul piano militare e dottrinale, screditare anche l’islam solamente politico e non militare, sfruttare le lotte intestine sia tra i gruppi jihadisti rivali che tra gli occidentali, proiettare del califfato una immagine ideale, come di una comunità islamica perfetta, pia e pacifica al proprio interno. E, soprattutto, sempre vincente all’esterno. Teologicamente parlando, la vittoria è il segno della protezione di Allah, proclamare la vittoria è quindi, per l’Isis, garanzia di affidabilità teologica e politica.
Il prefetto Gabrielli nota infatti, giustamente, che ogni attività di Daesh è finalizzata allo stesso scopo, la vittoria, soprattutto tramite il terrorismo, sugli occidentali e gli “infedeli” allo stesso modo.
Se infatti Al Qaeda voleva, in prima istanza, distruggere le monarchie taqfire, traditrici dell’Islam, attraverso un accordo con gli “infedeli occidentali”, il califfato opera sul territorio islamico come un vero e proprio stato nascente, in cui l’organizzazione interna rappresenta il nucleo propagandistico dell’Islam jihadista futuro.
Peraltro, e questo conferma il pericolo che ancora sovrasta le nostre teste, come dice il prefetto Gabrielli, una buona parte della propaganda califfale è volta alla frattura tra musulmani viventi in Occidente e le società in cui vivono, a cui corrisponde la creazione di un’obbligazione teologica a unirsi al califfato per tutti i “buoni musulmani”.
Se l’obbligazione al jihad di Osama bin Laden, in Afghanistan, riguardava solo alcuni musulmani, quella del califfato, proprio perché si tratta di uno stato in nuce ma completo, non può non riguardare tutti gli islamici, senza distinzione di sesso, di capacità belliche o di censo.
Tutto questo si materializza nella propaganda tradizionale del califfato come nella sua parte cyber; quindi non ci sono, sempre per il capo della nostra polizia, differenze tra una strategia della comunicazione Isis e la sua parte cyber, così come, con ogni probabilità, non vi è differenza sensibile tra obiettivo della guerra di Daesh all’occidente e il suo fine propagandistico, via web o meno.
Lo dimostra, infatti, l’attività del Cyber Caliphate hacking Division, che è penetrata in numerosi siti del governo Usa e, anche, in alcuni siti della nostra sicurezza nazionale.
Ma qual è la paura specifica che le azioni del califfato in occidente instillano e in quale modo essa è legata alla loro strategia?
Il Corano specificamente ordina ai guerrieri islamici, in primo luogo, di incutere una forte paura ai nemici, lo abbiamo già visto. Il califfato compie questa obbligazione coranica tramite la evidente ferocia dei suoi comportamenti interni, l’eguale ferocia nella sua condotta della guerra, il terrore che incute nelle popolazioni civili, anche islamiche, e l’immagine che vuole creare di sé in occidente: quella di un gruppo che va ben oltre le regole della guerra en dentelles che gli occidentali sono ormai abituati a compiere. La ferocia, qui, è il marchio della potenza e della superiorità bellica e psicologica sull’occidente “decadente”.
Né va dimenticato, come dice il capo della polizia Gabrielli, che il web, per il califfato, è una importante fonte di fund raising.
Ma come va la lotta al califfato web in Italia? Qui le notizie che ci fornisce il prefetto Gabrielli sono relativamente confortanti.
La nostra polizia postale è più autonoma e attiva ed è diventata, dal 2015, lo hub europeo di Hitech Crime. Il dato è importante: se prima la polizia postale si occupava in gran parte di truffe commerciali via web e pedopornografia, oggi il potenziamento della nostra già ottima polizia postale consente la costante valutazione, scoperta, segnalazione dei siti e delle comunicazioni del Califfato, in Italia ma non solo.
Non serve a niente, infatti, la segnalazione rapsodica delle comunicazioni jihadiste del califfato, serve soprattutto la lettura e la valutazione costante del flusso comunicativo, perché non è il singolo segnale esplicito che conta, ma la differenza tra il segnale jihadista e il flusso della comunicazione in cui esso è inserito. La comunicazione è la differenza, ma se ci concentriamo solo sul segnale sospetto ed evidente, ci impediamo di capire il contesto in cui opera e la complessità della situazione che viene indotta dal messaggio del califfato.
Continuità, abilità culturale e strategica nella lettura della comunicazione di Daesh, abilità a vedere la differenza tra il segnale pericoloso e il suo “brodo di coltura”. Ecco la funzione della polizia postale e della nostra intelligence che opera, diversamente da quanto accade in altri Paesi europei, in stretto contatto con la polizia e l’arma dei carabinieri.
E’ il pieno controllo del territorio che conta, ed è questo che permette, inoltre, il controllo del web. Senza studiare l’ambiente in cui operavano, non avremo mai sconfitto le Brigate Rosse.
E’ finita quindi la vecchi retorica dell’Italia che si salva perché è l’area di transizione del jihadismo europeo-mediorentale.
Errore: come ci fa notare Gabrielli, il terrorismo oggi è composto dal mix di lupi solitari e rete, non c’è bisogno di aree arretrate, zone di copertura o trattative occulte, come ai tempi del “Lodo Moro” tra noi e l’Olp palestinese.
E, certamente, il califfato jihadista non manterrebbe certo la parola con lo Stato italiano.
Quindi, lottare contro il jihad territoriale dell’Isis non riguarda solo la guerra guerreggiata, come pensano alcuni nostri alleati, ma deve mettere insieme contropropaganda, intelligence da “fonti aperte” e operativa, azioni di penetrazione e sovversione interna, strumenti di protezione della rete e di deformazione del messaggio jihadista.
Senza questa raffinata complessità, ci dice Gabrielli, nessuna guerra sul terreno sarà vincente né alcuna lotta “culturale” sarà completa.