Al netto di quella che Vittorio Feltri ha felicemente definito la “rissa da bettola”, al minuscolo, commentando le tensioni nel Pd ma pensando a Bettola, al maiuscolo, dove è nato il sempre più antirenziano Pier Luigi Bersani, fra i sostenitori del no referendario alla riforma costituzionale ce ne sono di convinti in buona fede, soprattutto a sinistra, che sia a rischio la Repubblica parlamentare voluta e disegnata dai costituenti del 1946 e 1947. I quali in effetti pensarono a un sistema in cui fosse centrale il parlamento, col diritto di accordare e revocare la fiducia ai governi nominati dal capo dello Stato su indicazione dei partiti, e in base ai loro rapporti di forza derivanti dai risultati elettorali.
Ma, sempre fra i sostenitori del no referendario, ce ne sono di convinti, sempre in buona fede ma questa volta a destra, che ci sia ancora troppa Repubblica parlamentare nella riforma, per quanto la fiducia al governo spetti solo alla Camera e non anche al Senato, ridotto a un dopolavoro gratuito di consiglieri regionali, sindaci, senatori a vita in estinzione, ereditati dal vecchio sistema, e altri cinque a termine, nominati dal capo dello Stato e destinati a decadere con lui.
Il fatto che della Repubblica parlamentare si ritiene, da parte dei sostenitori del presidenzialismo, ne rimanga troppa, e al contrario, da parte della sinistra, ne rimanga troppo poco, dovrebbe far pensare che la riforma di Renzi sia una soluzione di più o meno ragionevole compromesso.
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Eppure tutte e due le posizioni mi sembrano sfalsate rispetto alla realtà. Partono entrambe dalla convinzione sbagliata che esista ancora una Repubblica parlamentare, poco importa a questo punto se da difendere o superare. La Repubblica parlamentare in Italia, in realtà, è bella che finita dagli anni di Mani pulite, come vennero chiamate le inchieste giudiziarie sul finanziamento illegale dei partiti e sulla corruzione che poteva averlo accompagnato. Inchieste sacrosante, sia chiaro, ma che per il modo in cui vennero gestite dai magistrati e utilizzate dalla politica misero la Repubblica parlamentare in quarantena. Dalla quale nessuno, ma proprio nessuno, né a destra, né a sinistra, né al centro ha saputo o voluto affrancarla: neppure Renzi, che aveva acceso qualche speranza annunciando il proposito di restituire alla politica “il primato”. Ma poi si è smentito, ricorrendo pure lui ai magistrati per competenze politiche, o applicando con una certa, equivoca discontinuità il rifiuto di scambiare per condanna, e conseguenti dimissioni dei destinatari, i cosiddetti avvisi di garanzia.
Da parlamentare, nel 1992 la Repubblica italiana divenne giudiziaria. A renderne plastico il passaggio fu proprio un ex magistrato, Oscar Luigi Scalfaro, che s’insediò al Quirinale estendendo la prassi delle consultazioni per la formazione del governo dai partiti, e rispettivi gruppi parlamentari, al capo della Procura della Repubblica di Milano: la Procura pilota delle inchieste sui politici.
Dalle Procure della Repubblica si passò allora alla Repubblica delle Procure, dove bastava essere indagati per diventare indegni. La camera già nel 1993, poco più di un anno dopo la sua elezione, rischiò di essere sciolta anticipatamente dal furente capo dello Stato per non avere autorizzato l’arresto dell’ex ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, chiesto dalla magistratura per il timore che potesse inquinare le prove nelle indagini alle quali era sottoposto.
Solo in una Repubblica giudiziaria un partito poteva sentirsi autorizzato a ritirare i suoi ministri dal governo, come fece sempre nel 1993 il Pds-ex Pci di Achille Occhetto, per protesta contro la Camera che aveva osato concedere solo alcune, non tutte le autorizzazioni a procedere giudiziariamente contro Bettino Craxi. Istituto, quello delle autorizzazioni a procedere nelle indagini, poi abolito dalla Costituzione per dissetare o sfamare i giustizialisti.
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Recentemente l’ex presidente della camera e mancato giudice della Corte costituzionale Luciano Violante, l’ex magistrato considerato per un po’ di tempo il leader di riferimento del cosiddetto “partito dei giudici”, ha avuto il merito di denunciare il carattere ormai “invasivo” del diritto penale e la spontanea sudditanza della politica alla giustizia. E ha commentato le assoluzioni dei suoi compagni di partito Filippo Penati e Ignazio Marino e del leghista Roberto Cota lamentando i guasti della “società giudiziaria”, schiacciata praticamente sulle Procure, incapace del necessario distacco dalle iniziative dell’accusa, che possono essere confermate ma anche smentite dalle sentenze, peraltro mai abbastanza risarcitorie dei danni procurati dai processi mediatici.
Chiederei al pur coraggioso Violante, oggetto ormai di dileggio dei manettari, che non gli perdonano le riflessioni maturate di fronte alla crescente invadenza di molti dei suoi ex colleghi, di fare un altro, il più decisivo passo nell’analisi della situazione. E di riconoscere pure lui che non solo la “società ” ma la stessa Repubblica è diventata giudiziaria, da troppo tempo.
È una Repubblica, quella italiana, in cui è potuto accadere che una commissione bicamerale per la riforma costituzionale è stata praticamente silurata da un fax di dissenso della Procura di Milano, come ha recentemente ricordato chi allora la presiedeva, l’ex segretario della Dc Ciriaco De Mita, sostituito poi da Nilde Jotti. Una Repubblica dove il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini, ha appena ammesso, o denunciato, come preferite, che i pubblici ministeri spesso e volentieri non assolvono al dovere di cercare nel loro lavoro anche gli elementi favorevoli, e non solo quelli contrari, ai loro indagati.
Altro che parlamentare, ripeto ai protagonisti e attori del referendum costituzionale del 4 dicembre. Questa è una Repubblica giudiziaria, di fronte alla quale sono in troppi a guardare dall’altra parte, o a mettere la testa sotto la sabbia.