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Matteo Renzi, le leadership e i rischi del Grande Fratello Vip

Matteo Renzi

Ma davvero è inevitabile oggi per i leader politici una deriva “coatta” e da celebrity mediatica? Sicuri che sia opportuno, alla lunga, sforzarsi di essere “come” gli altri? O forse non vale la pena tentare di essere (e apparire) diversi per conquistare gravitas? Se sei “come” gli altri, qual è la differenza con un supercafone del Grande Fratello Vip? Quelli sono anche più tatuati e più muscolosi…

Premessa doverosa. Questa riflessione domenicale trae spunto dalle immagini renziane alla Casa Bianca (con l’ormai imbarazzante “Renzish”, la mimica da italiano in gita, i vip veri o presunti esibiti come trofei di caccia, eccetera), ma avrebbe tranquillamente potuto basarsi su performance di tenore analogo: per citare esempi diversissimi fra loro, la bandana berlusconiana o il Di Battista in moto (tutte cose molto efficaci, secondo la valutazione degli “esperti”).

Intendiamoci bene: so perfettamente che c’è una deriva mediatica irrefrenabile. Qualcuno, in Inghilterra, ha coniato la formula della “X-factorizzazione” della politica, ed è assolutamente vero: siamo dentro un talent-show, e molti elettori sono portati a concedere il loro “mi piace”, come su Facebook, per la percezione di un istante, magari verso il candidato con cui berrebbero volentieri una birra, a prescindere da considerazioni più di fondo e da troppo sofisticati calcoli sulle conseguenze di quel “like”.

Inutile piangere: questa è la situazione. Eppure, c’è modo e modo di affrontarla e si deve trovare una misura tra il necessario processo di “umanizzazione” del leader e una deriva “coatta” da celebrity mediatica. Est modus in rebus: o almeno questo “modus” andrebbe cercato.

Se invece il cedimento è totale, se l’unico obiettivo diventa apparire (e alla lunga essere!) “come” gli altri, qual è la differenza con un supercafone da Grande Fratello Vip? Nessuna, temo: se non che il supercafone sarà anche più muscoloso e più tatuato, quindi ancora “migliore”, agli occhi di un certo pubblico.

Scherzi a parte, forse è il caso (non per moralismo!) di far riguadagnare alle leadership politiche una “diversità” anche estetica, presupposto – a me pare – per giustificare la diversità dei compiti a cui si dovrebbe essere chiamati. Lo dico in termini astratti: se devi decidere su una delicata vicenda economica, o se devi gestire una guerra, non puoi limitarti a fare la “faccia di circostanza” in quel momento, salvo agire da giullare per il resto del tempo. O hai costruito (prima, durante e dopo) una “gravitas” che legittimi la tua posizione, oppure sarà materialmente impossibile prendere decisioni difficili, o anche solo prendere decisioni con un minimo di credibilità.

A meno che non ci si accontenti di questo: tecnocrazie e burocrati come gestori dello status quo, in una logica da “pilota automatico”, e ceto politico come un cast di intrattenitori (di livello che ciascuno può giudicare).

Certo, siamo su un terreno dove rilevano le caratteristiche e la sensibilità di ogni persona, ma anche i “formati” contano, anche i “contesti” in cui la comunicazione avviene hanno un loro indiscutibile rilievo. Il presidente americano, chiunque lui (o lei) sia, parla 99 volte su 100 dalla Casa Bianca, con podio e simbolo della presidenza: poi, una tantum, può capitare che vada in uno show televisivo oppure che si conceda in una versione più pop, ma si tratta – appunto – di un’eccezione. Se invece – come accade qui da noi – un leader politico sta tutte le sere sulle stesse seggioline televisive dove, appena lui si alza, siedono figuranti di ogni tipo, diviene automaticamente “omologabile” – anzi omologato – a quei figuranti, e figurante lui stesso, intercambiabile con gli altri.

Lettura passatista, la mia? Può darsi. O forse no: il futuro riserva al nostro Occidente momenti difficili e cupi. Serviranno o servirebbero guide autorevoli. Dubito che, proseguendo con questa cornice mediatica, si stia lavorando per averne.


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