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Perché il tosto Stefano Parisi non si fa impressionare dagli ukase di Renato Brunetta

Solo da noi, diciamo la verità, poteva accadere che la sfortunata sonda Schiaparelli – vi raccomando, una sola p per non aggravare la memoria dell’astronomo italiano di cui portava il nome – entrasse di peso nella campagna referendaria sulla riforma costituzionale per essere indicata come la prova di un presidente del Consiglio menagramo. Che, avendo avuto l’imprudenza di vantarsi dell’impresa spaziale quando era ancora in corso, merita con la sua riforma costituzionale di fare la stessa fine della capsula rottamata su Marte. Rottamata come neppure Renzi ha saputo fare con Massimo D’Alema, che continua a dargli fastidio.

Il pozzo del dibattito politico nel nostro Paese non ha fondo, anche se vi sono precedenti italiani. E neppure all’estero scherzano.

Dei precedenti italiani basterà ricordare quello del famoso settimanale di Leo Longanesi Il Borghese, che pur dopo la morte del fondatore arrivò in una sua forsennata campagna politica contro Amintore Fanfani – una specie, in miniatura, del Renzi di questo 2016 – a dedicargli una copertina con un gigantesco corno rosso appeso al collo, in fotografia, dell’allora segretario della Dc e, pure lui, se non ricordo male, come il Matteo dei nostri giorni, presidente del Consiglio nello stesso tempo.

Degli esempi esteri, basterà fermarsi allo spettacolo che sta dando negli Stati Uniti il candidato repubblicano alla Casa Bianca, Donald Trump, del quale mi stupisco solo che il compianto generale e presidente Ike Eisenhower non gli abbia ancora mandato di notte un gigantesco fantasma per annichilirlo e salvare ciò che resta di quello che fu il suo partito.

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Allo sfortunato epilogo della sonda o capsula Schiaparelli –vi raccomando di nuovo, una sola – non si è richiamato soltanto il solito Marco Travaglio per una sarcastica rappresentazione di ciò che sarebbe capace Renzi, cogliendo l’occasione per abbinarne nome e figura anche ai recenti insuccessi o infortuni olimpici occorsi alla sua presenza, in quel di Rio, a Federica Pellegrini e Vincenzo Nibali.

La fine della sonda spaziale e i suoi possibili riflessi sull’esito del referendum costituzionale italiano hanno fatto capolino anche in un salotto televisivo fra i più noti e apprezzati, dove peraltro si è cercato di coinvolgere nel gioco anche l’ex direttore ed ora solo editorialista del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli, forse contando sul no referendario da lui già annunciato in quella sede e sugli scontri avuti già in passato con Matteo Renzi, liquidato come un “maleducato di talento” in odore di frequentazioni massoniche.

Il povero de Bortoli, che è un signore chiaramente riconoscibile, non ha potuto nascondere il suo disagio, pur sorridente. E, non volendo arrivare ad una esplicita difesa del malcapitato e assente presidente del Consiglio, ha chiesto ai suoi interlocutori se fossero proprio sicuri di poter liquidare come un fiasco la missione della sonda, al di là del rovinoso schianto sul suolo di Marte. In effetti, le imprese spaziali sono cose particolarmente complesse, per cui anche i fiaschi servono a prepararne di nuove, e più fortunate. Qua la mano, direttore.

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Quello che mi sembra invece irrimediabile è lo sgomento che debbono avere procurato al capogruppo forzista della Camera Renato Brunetta le due ore di faccia a faccia comunicate dalle agenzie di stampa fra Silvio Berlusconi e Stefano Parisi. Che, per niente intimidito dall’incontro del giorno prima fra lo stesso Berlusconi, il segretario della Lega Matteo Salvini e la sorella dei Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, intende proseguire nel tentativo affidatogli dall’ex Cavaliere di riorganizzare quello che fu il centrodestra, ma a guida moderata. E ciò, nonostante il successore di Umberto Bossi alle redini del Carroccio ne rivendichi un giorno sì e l’altro pure la leadership perché sicuro di avere ormai più voti di Forza Italia.

Non è detto, per carità, che Parisi ce la faccia. E neppure che Berlusconi lo appoggi davvero sino in fondo, perché è non nota ma arcinota l’imprevedibilità dell’ex presidente del Consiglio. Ma una cosa è certa: il pur mancato sindaco di Milano, sconfitto comunque di misura nella corsa difficilissima al Palazzo Marino, è un tipo tosto. Egli ha un sistema nervoso decisamente migliore di Brunetta e degli altri ufficiali e sottufficiali forzisti che gli fanno la guerra o la fronda. Non è uno che si liquidi da solo con uno scatto di nervi, per cui non soltanto Brunetta, Paolo Romani, Giovanni Toti, Daniela Santanchè, la pitonessa, ma anche Salvini e la Meloni farebbero bene a togliersi dalla testa l’idea di potersi facilmente liberare di lui. Se non sarà l’ex Cavaliere a cambiare idea, dovranno essere loro a cambiarla.

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Anche a Bruxelles temo, anzi spero, che dovranno prima o poi cambiare registro con Renzi. Che si sarà pure gonfiato troppo, come lo ha appena disegnato Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera, con gli estrogeni somministratigli alla Casa Bianca dal presidente uscente degli Stati Uniti Barack Obama, ma è deciso a vendere cara la pelle nello scontro sui decimali del bilancio italiano in corso ai vertici dell’Unione Europea. La cui popolarità e autorevolezza, dopo le prove date sul fronte dell’immigrazione, ben più importante e decisivo dei temi finanziari preferiti dai burocrati europei e dalle cancellerie che li spalleggiano, sono ormai troppo compromesse. Se ne farà una ragione da noi, prima o poi, anche il senatore a vita –lunghissima vita, per carità- Mario Monti.

Al Sole-24 Ore, al netto dei problemi di varia natura che hanno in casa, sono convinti che “il braccio di ferro” nuovamente ingaggiato da Renzi con i signori e le signore di Bruxelles e dintorni sia un po’ troppo strumentale, finalizzato al bisogno del presidente del Consiglio di piacere all’elettorato di destra e di spostarne i voti sul fronte referendario del sì alla riforma costituzionale. Ma la Confindustria, di cui mi sembra che quel giornale sia ancora proprietà, non è schierata anch’essa sul fronte referendario del sì? Forse mi sono perso qualche battuta.


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