Fra i videogiochi che hanno maggiormente attirato l’attenzione del pubblico negli ultimi tempi, complice anche la loro amplissima diffusione, si colloca senz’altro il prodotto Pokemon Go, realizzato dalla ditta statunitense Niantic in collaborazione con le società nipponiche Freak, Pokemon Company e Nintendo, e distribuito su piattaforme Android e iOS, in modalità free-to-play, a partire dal mese di luglio 2016.
Il gioco consiste nel catturare, con un’arma virtuale (pokemon ball), un’ampia serie di personaggi di fantasia (pokemon) coi quali costruire poi delle squadre (pokedex) che, dopo essere state allenate in apposite palestre virtuali (pokemon gym), combattono fra loro in gare a eliminazione diretta, in modo da acquisire i punti necessari a progredire, man mano, sui vari livelli di abilità previsti dal gioco. Fra le sue peculiari più innovative, Pokemon Go offre anche la possibilità di un’esperienza di gara in “realtà aumentata”, ben più stimolante e coinvolgente rispetto a quelle tradizionalmente presentate da altri videogiochi in commercio. I pokemon da catturare, infatti, per quanto (ovviamente) appaiano solo all’interno dello scenario virtuale del gioco (simile a una mappa geografica), sono catturabili soltanto in determinati e ben precisi luoghi reali (po-kestop), scelti dal software di gioco, che il partecipante deve, perciò, raggiungere fisicamente, spostandosi, anche per decine di chilometri, munito del proprio smart phone, trasformato in dispositivo di gioco geolocalizzato a mezzo sistema Gps.
Una volta giunti nel punto in cui la mappa di gioco segnala la presenza di un pokemon catturabile, se il giocatore ha attivato un’apposita opzione, lo schermo del suo dispositivo di connessione mobile visualizza, attraverso la fotocamera in dotazione, le immagini reali dell’ambiente circostante sulle quali compare, in sovraimpressione, la sagoma fittizia del personaggio bersaglio. Nel corso di una partita in modalità in realtà aumentata, quindi, anche le persone in carne e ossa, eventualmente presenti in quel luogo e in quel momento, sono per forza di cose “catturate” nel display dello smart phone sul quale il software del gioco sta proiettando la figura immaginaria da colpire.
Il videogioco ha suscitato molte perplessità in relazione alla tutela dell’incolumità o del patrimonio dei giocatori dalle conseguenze di comportamenti criminali (come tentativi di rapina) o disattenti (soprattutto incidenti stradali), peraltro già verificatisi, così come non ha mancato di innescare forti sentimenti di non sufficiente rispetto della dignità di luoghi di elevato valore simbolico (come il campo di concentramento di Auschwitz). Ed è proprio dal punto di vista del rispetto della dignità che il videogame sembra presentare alcuni profili di delicatezza sui quali ci si deve soffermarsi sia pure soltanto a titolo di spunto di riflessione e senza alcuna pretesa né di completezza, né di esaustività.
In uno dei più noti casi in cui è stato affrontato il rapporto fra la dignità umana e le modalità di svolgimento di giochi di ruolo (Omega/Oberbürgermeisterin Bonn), una società di diritto tedesco (la Omega Spielhallen un Automatensufstellungs GmbH) aveva aperto, nel comprensorio della città di Bonn, un laser domo per lo svolgimento di un’attività ludica denominata laser game. Si trattava, in particolare, di un gioco di ruolo nel quale i partecipanti, muniti di apparecchi di puntamento simili ad armi da fuoco, dovevano colpirsi l’un l’altro con innocui raggi laser sino a che, in base al numero e alla localizzazione dei colpi inferti in modo simulato, registrati dai sensori cuciti sui giubbotti indossati, le vittime degli attacchi simulati si potessero ritenere virtualmente uccise e, di conseguenza, eliminate dalla competizione.
In ragione della gratuità delle violenze previste nel laser game, per quanto interamente fittizie, il gioco era oggetto di un’ordinanza inibitoria emanata dall’Oberbürgermaisterin Bonn per motivi di ordine pubblico sulla base di quanto previsto dall’art. 14, §1 dell’Ordnungsbehördengesetz Nordrhein-Westfalen.
Il provvedimento adottato dall’Oberbürgermaisterin veniva allora impugnato dalla ditta Omega, prima in sede amministrativa davanti al Bezirksregierung Köln, e poi in sede giurisdizionale sia presso il Verwaltungsgericht Köln che davanti all’Oberverwaltungsgericht für das Land Nordrhein-Westfalen, sino ad arrivare al tribunale amministrativo federale.
Il Bundesverwaltungsgericht, peraltro confermando le statuizioni dei precedenti giudici, riteneva, tuttavia, legittimo il divieto di sfruttamento commerciale di un gioco a colpire e uccidere, alla luce delle norme protettive dell’ordine pubblico, in quanto preordinato alla tutela del valore costituzionale supremo della dignità umana, sancito dall’art. 1, §1 G.G. e non sopprimibile neppure in un contesto interamente ludico.
Secondo il tribunale amministrativo federale, infatti, la dignità umana non viene lesa soltanto quando l’avversario di un gioco è sottoposto a un trattamento degradante (circostanza, questa, che nel laser game non si verifica) ma è altresì incisa nei casi in cui si risveglia o si rafforza nei giocatori un’attitudine volta a negare il fondamentale diritto di ogni persona a essere riconosciuta e rispettata (come capita nella rappresentazione, anche meramente simulata, di atti di violenza e di omicidi).
Tuttavia, dal momento che la società tedesca Omega si riforniva per l’attrezzatura di gioco da una ditta inglese (la Pulsar Advanced Games Ltd), sulla base di un contratto di franchising stipulato regolarmente, in quanto nel Regno Unito il gioco non era oggetto di restrizioni, si poneva il dubbio – di cui il Bundesvewaltungsgericht investiva la Corte di Giustizia ex art. 243 Tce (ora art. 267 Tfue) – se il provvedimento amministrativo contestato potesse ledere le libertà di prestazione dei servizi e di circolazione delle merci sancite nei trattati europei.
Dubbio, quest’ultimo, che era escluso dalla Corte di Giustizia in base all’interpretazione del disposto dell’art. 46 e dell’art. 55 Tce (oggi, rispettivamente, art. 52 e art. 62 Tfue) che consente l’adozione, da parte degli Stati membri, di restrizioni alla libertà di prestazione dei servizi per motivi di ordine pubblico.
Secondo la Corte, infatti, all’interno dei motivi di ordine pubblico che giustificano la deroga contemplata dal trattato, può essere fatta rientrare anche la tutela della dignità umana, quale principio generale alla cui salvaguardia anche l’Unione, al pari degli Stati, deve considerarsi senz’altro rivolta.
Seguendo l’orientamento della Corte, quindi, non è peregrino pensare che anche nel caso del videogioco Pokemon Go essa potrebbe ritenere legittimo, per l’ordinamento europeo, un eventuale intervento restrittivo a protezione della dignità delle persone presenti nella realtà che (a loro insaputa) viene ripresa dallo smart phone del giocatore su cui il software di gioco sovrappone l’immagine fittizia del pokemon da bersagliare.
Il principio ricavabile dal caso Omega, secondo il quale la dignità umana è lesa, nell’ambito di un’attività commerciale d’intrattenimento, quando si nega alla persona il fondamentale diritto a essere riconosciuta e rispettata, deve, in effetti, ritenersi applicabile anche a tutela di coloro che non prendono parte al gioco ma che vi sono comunque direttamente coinvolti.
Sotto questo profilo vale, allora, la pena di considerare che, come si è detto, la dinamica di gioco Pokemon Go contempla l’ipotesi che dei soggetti, del tutto estranei alla competizione (si pensi ai passanti in strada o agli avventori all’interno di un locale), entrino, tuttavia, a far parte dello scenario del gioco in corso per il semplice fatto di trovarsi, anche in modo del tutto casuale, in prossimità di un giocatore intento a catturare il suo pokemon.
Come già si è sottolineato, infatti, una volta che l’opzione di ripresa dell’ambiente circostante è stata attivata, l’immagine dei terzi presenti sul posto risulta, in ogni caso, catturata (insieme al panorama) dalla fotocamera e visualizzata sul display dello smart phone del giocatore, alla pari del ritratto dei personaggi fittizi riprodotti, sullo stesso schermo, dal software di gioco.
Sia pure per un tempo limitato, dunque, coloro che si trovano a stazionare o a camminare davanti a una persona impegnata a giocare a Pokemon Go vengono, per così dire, trasformati e ridotti a semplici componenti (insieme ai personaggi immaginari) dello scenario del videogioco scelto dagli altri, senza aver dato alcun consenso, e spesso senza essere neppure consapevoli del gioco in corso.
Alle neuroscienze, in tutte le loro molteplici articolazioni disciplinari, spetterà, prima o poi, di fornire elementi sufficienti a stabilire se la sovrapposizione della realtà colta dalla fotocamera con la virtualità generata dal software di gioco, può arrivare persino a indurre, magari ripetendo le partite innumerevoli volte, una sorta di confusione fra i piani di realtà e di finzione, quasi come in una sorta di stato d’allucinazione.
Tuttavia, anche se il giocatore rimanesse in grado di tenere sempre ben distinti i personaggi immaginari dalle persone reali che vede sullo schermo, la situazione che si determina sembra porsi comunque in tensione col principio in base al quale i soggetti visualizzati durante il gioco hanno diritto ad essere riconosciuti in qualità di persone e non di oggetti, mere pedine, per così dire, di un videogame altrui.
D’altro canto, nel caso del laser game, il divieto di svolgimento dell’attività ludica è stato giustificato non già sulla base del pericolo che la reiterazione del gioco potesse arrivare a suggestionare i partecipanti al punto tale da indurli a commettere atti di violenza o di omicidio reali nella vita quotidiana, bensì per impedire la lesione alla dignità dei giocatori di essere ridotti a oggetto, mero bersaglio umano, per così dire, dell’altrui divertimento a colpire e uccidere (in modo innocuo).
Almeno in via di primissima conclusione, sembrerebbero, quindi, esserci degli elementi per dubitare che la specifica modalità di gioco Pokemon Go che comporta la visualizzazione in realtà aumentata dell’ambiente reale circostante, risulti davvero pienamente rispettosa di quella dignità che va sempre tributata alle persone, anche a quelle che, per loro ragioni, hanno deciso di non partecipare al nuovo videogioco di successo.
Il videogame, infatti, come si è detto, comporta vi siano (o, almeno, che vi possano essere) delle persone che (anche per un breve periodo di tempo) diventano parte del gioco, ridotte sostanzialmente e figure di uno scenario, proiettato sullo smart phone del giocatore, in parte reale e in parte virtuale.
Tutto questo, peraltro, in spregio anche a ogni norma privacy e al rispetto del diritto fissato dall’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dall’art. 16 Tfue.