Riconosco che i comici in politica vanno di moda da quando Beppe Grillo ha preso in prestito dal cielo cinque stelle, sette anni fa. Ha creato un partito chiamandolo movimento per farlo muovere, appunto, più liberamente e disordinatamente. Ha sorpassato abbondantemente il partito improvvisato nel 1994 da Silvio Berlusconi. Ha fatto perdere, o non vincere, come preferite, all’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani le elezioni del 2013. Si è messo in testa di rovesciare il successore Matteo Renzi. Ha fatto scappare per disperazione sui tetti del Campidoglio la sindaca pentastellata Virginia Raggi. Ha concesso generosamente “15 minuti di celebrità” ad un altro sindaco a più stelle, quello di Parma Federico Pizzarotti, facendolo dimettere a spintoni dal quasi partito o come diavolo si deve chiamare quello del comico. Ha attraversato a nuoto lo stretto di Messina anche per dimostrare che si può fare a meno del ponte, ma forse pure dei traghetti, per spostarsi dalla Calabria alla Sicilia. Ed ha disposto un ricorso al Tar, insieme con Nichi Vendola e compagni, contro un quesito referendario sulla riforma costituzionale che considera una truffa. Ma, corrispondendo semplicemente al titolo della legge approvata dalle Camere e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, su cui gli elettori debbono dire sì o no, è lo lo stesso col quale gli amici di Grillo e Vendola hanno inutilmente tentato di raccogliere nella scorsa estate le firme da presentare alla Corte di Cassazione nel tentativo anche di procurare al comitato per il no il “rimborso” di mezzo milione di euro. Rimborso guadagnato invece dai promotori dell’odiatissimo sì, riusciti a raccogliere più ancora delle 500 mila adesioni richieste dalla legge.
Potrei ancora continuare col già troppo lungo elenco delle prodezze politiche del comico più comico di tutti come va considerato Grillo per i suoi indubbi successi di pubblico, di piazza e di urne, con spettacoli a pagamento o gratuiti, indifferentemente. Ma mi fermo qui per non togliere troppo spazio ad altri comici che si sono guadagnati la scena in queste ultime ore.
Uno, per esempio, è il sempre imprendibile Maurizio Crozza, che ha saputo far tirare un sospiro di sollievo contemporaneamente agli opposti Alessandro Sallusti e Marco Travaglio, nell’ordine rigorosamente alfabetico dei loro cognomi, annunciando il suo NO referendario, tutto maiuscolo, alla riforma costituzionale targata Renzi. Per quanto questi ne attribuisca la vera paternità al presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano o, ancora più in alto, al Parlamento legittimamente in carica.
Un altro comico che si è imposto allo spettacolo politico nelle ultime ore è il toscano, pure lui, come Renzi, di nome Roberto e di cognome Benigni, specialista nel recitare la Divina Commedia di Dante Alighieri. Che dall’aldilà gli ha chiesto o intimato il sì referendario alla riforma, secondo la divertente vignetta disegnata dal nuovo, bravissimo direttore dell’Unità Sergio Staino. Al quale profitto dell’occasione per rinnovare i migliori auguri, nel sedicesimo giorno della guida di un giornale ereditato in condizioni, diciamo così, difficili.
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Il sì di Benigni alla riforma della Costituzione da lui recitata alla televisione e altrove come “la più bella del mondo”, secondo una formulazione, in verità, non inventata da lui ma da quel buon uomo di Bersani, non si può considerare una novità in assoluto. Il comico toscano l’aveva già annunciato una volta, d’estate. Ma in autunno evidentemente fa più notizia. O è diventata più rumorosa per la nuova motivazione che ne ha dato, non di carattere estetico e ideale, ma pratico: perché la vittoria del no manderebbe “il morale a terra”, in Italia e altrove, e farebbe “più danni della Brexit”, dell’uscita cioè della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Che, per quanto non ancora formalizzata perché essa comporta un negoziato quasi come quello per entrarvi, ha già autorizzato la prima ministra inglese ad annunciare una schedatura, o lista di proscrizione, degli europei non britannici residenti nel suo Paese.
Benigni “non fa più ridere”, ha decretato il sindacato dei suoi spettatori quale ritiene evidentemente di essere Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, già allarmato nei giorni precedenti dalle difficoltà che stanno incontrando i propri spettacoli per il no referendario nei teatri comunali dove cerca di rappresentarli.
Benigni “fa piangere”, si è spinto ancora più avanti, o indietro, come preferite, Il Manifesto. Che evidentemente di lacrime s’intende di più per le disgrazie politiche alle quali gli è capitato di assistere nella sua vita, più lunga e tormentata del giornale fondato da Antonio Padellaro e diretto ora da Marco Travaglio. Che, dal canto suo, per non essere da meno dell’Unità di Staino ha lasciato rappresentare Benigni, in una vignetta di prima pagina, mandato a quel posto dalla sua signora Costituzione, che lui scherzando al rientro in casa era tornato a salutare come “la più bella del mondo”. Davvero imperdibili questi comici, autentici o imitati che siano.
Pensare che l’esito del referendum del 4 dicembre possa in qualche modo dipendere anche da “lor signori”, come usava scrivere sull’Unità di un tempo il mitico ex deputato democristiano Mario Melloni, in arte Fortebraccio, quando si occupava degli avversari o sgraditi, vi confesso che mi fa un po’ paura. Più di quanta ne abbia procurato al buon Antonio Polito, sul Corriere della Sera, il pur lungo elenco delle leggi ferme in Parlamento anche per l’attesa dei risultati referendari, e non solo per i contrasti fra e dentro i partiti della maggioranza di governo.
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Una parola tuttavia mi sentirei di spendere a favore di Benigni. E non tanto per le sue frequentazioni dantesche, quanto per il rischio che corre di essere liquidato dai suoi peggiori detrattori come un vigliacco o/e opportunista, che cambia pareri, battute e barzellette per paura di Renzi e dei contratti, televisivi e non, che il presidente del Consiglio potrebbe fargli perdere o non conquistare.
Beh, questo non si può dire a Benigni dopo tutti i soldi che ha guadagnato nella sua carriera d’artista. E che dovrebbero bastargli ed avanzare per una serena vecchiaia, sua e dei suoi familiari. Sarebbe come accusare Silvio Berlusconi, con tutti i soldi che ha, e non solo i guai, di avercela con Renzi solo perché, contribuendo, sia pure dall’esterno di Palazzo Madama, a farlo decadere da senatore per la nota condanna definitiva per frode fiscale, gli ha fatto perdere anche il vitalizio di ex parlamentare. Com’è appena capitato anche al suo amico ed ex legale Cesare Previti.