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Benvenuti al bislacco spettacolino dei Signor No al referendum

Oltre al capolavoro di Eduardo De Filippo già ricordato ai nostri lettori, quel Natale in casa Cupiello dove Lucariello non riesce a far piacere il presepe al figlio Nennillo, come Matteo Renzi non riesce a far piacere la sua riforma costituzionale ai compagni dissidenti di partito, questa benedetta e lunghissima campagna referendaria assomiglia sempre di più allo spettacolo di una colazione al bar. Al cui bancone si sentono le più disparate richieste di cappuccini, caffè e cornetti.
A parte i sì, che sono un po’ tutti omogenei, i no sono di una varietà simile appunto a quella dei cappuccini o caffè: al vetro, in tazza, bollente, caldo, tiepido, con schiuma, senza schiuma, dolce, amaro, marocchino. E per fortuna ci si ferma al Marocco e non ci si avventura altrove, coi tempi che corrono. I cornetti invece debbono essere vuoti, pieni, poco cotti, molto cotti. Qualcuno li chiede addirittura quasi bruciati, scambiando spesso per tali quelli semplicemente lucidati di scuro non so con quali ingredienti.
Dei no referendari alla riforma costituzionale di Renzi abbiamo, con gli ultimi aggiornamenti consigliati dalle cronache politiche, i no flebili e scritti di Silvio Berlusconi, al quale medici e familiari raccomandano per ragioni di cuore, in tutti i sensi, di non esporsi di più, con comizi e quant’altro pretesi dai suoi esigenti, sospettosi, potenziali e mai sicuri alleati della Lega e della destra meloniana. Abbiamo i no “costruttivi” che ogni tanto lo stesso Berlusconi si lascia scappare, infastidito forse da quelli distruttivi di amici che urlano, come Renato Brunetta, facendosi gonfiare le vene in gola sino a rischiarne l’esplosione. Poi vengono i no”intelligenti”, variante di quelli costruttivi coniata con il suo solito stile curiale da Gianni Letta. Seguono i no sussurrati, impercettibili, afoni. Di fronte ai quali i sì mormorati nei colloqui – per carità, mai interviste vere e proprie – ai suoi giornalisti di fiducia da Fedele Confalonieri sembrano urlati. E tali, in effetti, sono stati percepiti dai duri e puri di Forza Italia, che protestano, mugugnano e alla fine si consolano solo smembrando l’amico di una vita di Berlusconi, separandone cioè i ruoli di quasi familiare dell’ex Cavaliere e di presidente di Mediaset, “costretto” in quanto tale a sostenere i governi di turno e le loro cause. Ah, l’eterno conflitto d’interessi.

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Sul fronte referendario del no capita sempre più di assistere ad accoppiamenti curiosi. Come quello appena offerto dal Giornale della famiglia Berlusconi, diretto da Alessandro Sallusti, e dal Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, che si sono scambiate l’apertura e la spalla, come si chiamano in gergo tecnico il titolo più in alto a sinistra e quello a destra. Entrambi i giornali hanno rimproverato a Matteo Renzi la stessa cosa: il tradimento del quasi statuto del Pd. Che ha appena festeggiato i suoi nove anni con un articolo orgogliosamente evocativo del suo primo e sfortunato segretario, Walter Veltroni, sull’Unità.
Pur fondato nell’autunno del 2007 proclamando la famosa “vocazione maggioritaria”, che poi significherebbe a rigor di logica la volontà di fare da soli, di vincere cioè le elezioni e poi di governare senza avere bisogno di alleati, visto che questi sono generalmente scomodi, il Pd celebrò la sua assemblea costituente qualche mese dopo, all’inizio del 2008. E in quell’occasione – ha ricordato il Giornale – il buon Sergio Mattarella, che di sicuro non poteva immaginare di essere destinato al Quirinale nel giro di soli sette anni, teorizzò un sostanziale divieto di modificare la Costituzione “a colpi di maggioranza”, quella di governo, senza coinvolgere almeno una parte delle opposizioni. Un divieto, ricordato contemporaneamente da Massimo D’Alema con dichiarazioni ben gridate sul Fatto Quotidiano, cui Renzi avrebbe compiuto l’imprudenza di sottrarsi. Come d’altronde avevano già fatto gli stessi artefici del Pd nel 2001 approvando con lo scarto di quattro voti al Senato, con la sola maggioranza di cosiddetto centrosinistra, la riforma di un intero titolo della Costituzione, il quinto, riguardante le competenze delle regioni. Cui seguì quattro anni dopo un’ancora più vasta riforma costituzionale del centrodestra, approvata anch’essa “a colpi di maggioranza”, come protestò Mattarella arruolandosi, al seguito dell’allora presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nelle truppe referendarie del no.
Ora, ditemi quello che volete, sarò uno sprovveduto, ma non riesco a capire come e perché la destra si debba far carico, diciamo così, della difesa delle origini del Pd e fare la spalla di D’Alema al banco dove si servono le pietanze di questo benedetto referendum. O lo capisco solo nella logica del dispetto, che è poi la stessa che ha dissolto al suo interno, con una commistione di problemi politici e di ambizioni personali, quello che fu il centrodestra.

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Vedere quello schieramento, a parole moderato, impegnato nelle sue punte a tirare la volata ai grillini e alla sinistra più a sinistra nella corsa referendaria al no, sino a ritrovarsi in piena allegria davanti alle cineprese e ai fotografi per immagini da cabaret, come mi sono apparse quelle di Gianfranco Fini accanto a Paolo Cirino Pomicino, o di un assonnato Lamberto Dini accanto a Cesare Salvi, e non vado oltre perché ho già il capogiro, non so se sia stato più divertente o avvilente.
Una volta tanto debbo dare ragione al mio amico Mario Segni, Mariotto per i familiari, che di referendum è un intenditore. Egli ha appena ammonito – penso – i sostenitori del no, in una intervista a Libero, che “si può vincere il referendum e perdere tutto”. Un monito, e un titolo, un po’ anche autobiografico, perché è capitato proprio a Mariotto di vincere i “suoi” referendum, prima quello contro i voti di preferenza, nel 1991, e poi quello contro il sistema elettorale proporzionale, nel 1993, a vantaggio di altri che poi gestirono così male quelle vittorie da avere ridotto il Paese nelle condizioni in cui si trova. Ne valeva la pena, Mariotto? Non credo.


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