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Tutte le volte in cui si è già cercato (invano) di riformare la Costituzione

Alla Costituente (1946-1947) – ovviamente – le posizioni iniziali delle principali forze politiche sull’assetto da dare all’ordinamento della nuova Repubblica erano alquanto divise. I punti di maggiore discussione furono:

– L’assetto del potere politico di vertice (ovvero la c.d. forma di governo): c’era chi voleva un sistema presidenziale, c’era chi voleva un sistema parlamentare, c’era chi voleva un sistema direttoriale;

– l’assetto del Parlamento: c’era chi voleva una Camera sola, c’era chi ne voleva due; fra coloro che ne volevano due (ferma la prima Camera di rappresentanza politica generale, sulla quale erano tutti d’accordo) c’era chi voleva che la seconda Camera rappresentasse le regioni, chi le regioni e gli enti locali, chi le categorie produttive e professionali, chi una delle possibili combinazioni di queste entità);

– l’opportunità di ripartire l’ordinamento su base regionale, con regioni dotate di più o meno ampia, più o meno limitata potestà di fare leggi;

– l’opportunità, vista la unanime decisione di dotarsi di una costituzione rigida (cioè non suscettibile di essere aggirata da leggi ordinarie), di dotarsi contestualmente di un giudice delle leggi (una Corte costituzionale che avesse il potere di verificare la conformità a costituzione delle leggi del Parlamento e delle Regioni, ed eventualmente di dichiararle nulle);

– lo spazio da riconoscere alla partecipazione popolare diretta, attraverso referendum di vario genere grazie ai quali fossero gli elettori a decidere.

Su tutte queste cose fu giocoforza raggiungere dei compromessi. Questi compromessi furono influenzati da molte variabili e – nel corso del 1947 – soprattutto dall’inizio della Guerra fredda, cioè del confronto duro, in Europa, fra Unione sovietica (e suoi alleati) da una parte e Stati Uniti (e loro alleati) dall’altra. Si venne a creare un clima di grande sfiducia reciproca: questo indusse ad accantonare alcune soluzioni e sceglierne altre, caratterizzate da istituti e regole tali da limitare i poteri e le risorse istituzionali di chi avesse, pur legittimamente e democraticamente, vinte le elezioni.

Così, in materia di forma di governo – dopo aver scelto già nel ’46 quella parlamentare (caratterizzata dal rapporto di fiducia fra Governo e Parlamento) – si rinunciò a dotare l’esecutivo di strumenti che ne rafforzassero la stabilità e ne garantissero l’efficacia operativa. Così, in materia di Parlamento, i monocameralisti accettarono le due Camere ma alla condizione che fossero entrambe elette dal corpo elettorale e dotate dei medesimi poteri (idea della seconda camera di riflessione o di garanzia: in parole povere, la classe dirigente Dc intorno a De Gasperi volle assicurarsi sia con queste Camere, sia con la presenza della nuova Corte costituzionale che la rivoluzione economico-sociale promessa dai comunisti e dai socialisti risultasse se non impossibile, certo molto improbabile e comunque difficile).

Il sistema rivelò subito i suoi difetti (di qui alcune modifiche di razionalizzazione del bicameralismo a partire dall’estensione della legge elettorale proporzionale anche al Senato: che ci si era impegnati ad eleggere con formula maggioritaria uninominale): ma tenne e funzionò per una somma di ragioni. Primo: il successo netto della Dc nelle elezioni del ’48 che le permise di controllare abbastanza agevolmente entrambe le Camere nella prima legislatura (1948-1953). Secondo: il consolidamento e poi la tenuta del sistema dei partiti politici quali si erano presentati alla Costituente e si erano affermati nel 1948. Il paese cresceva a ritmi molto elevati e si trasformava (si parlò di “boom economico”).

I guai cominciarono quando si trattò di tradurre in scelte operative la svolta di centro-sinistra (con allargamento delle maggioranze al Partito socialista); quando si trattò di fronteggiare la crisi di crescita della fine anni Sessanta, le richieste studentesche e operaie, la fame di riforme. L’Italia conobbe anni assai difficili: il terrorismo stragista della destra estrema, poi quello delle schegge impazzite dei movimenti di protesta (brigate rosse e simili). Alla fine degli anni Settanta – dopo la breve fase che associò nella solidarietà nazionale anche il Partito comunista – era del tutto palese che le istituzioni politiche funzionavano poco e male, senza coesione, senza mordente, senza capacità operativa, galleggiando sui problemi sempre più bisognose di riforme: riforme della politica, riforme dell’ordinamento costituzionale (non nei diritti, non nei principi, ma nella parte organizzativa).

Le maggioranze di pentapartito (democrazia cristiana con socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali) si fecero protagoniste di una serie di leggi innovative (tutela della concorrenza, procedimento amministrativo, ordinamento degli enti locali, sistema radiotelevisivo, authorities varie, regolamenti parlamentari): ma senza scalfire gli assetti allora vigenti, anzi facendo in modo di preservarli e conservarli. Comunque, era troppo tardi.

Dalla costatazione di questa indisponibilità a riforme vere, esemplificata dal rifiuto di introdurre almeno l’elezione diretta dei sindaci (proposta avanzata già nel 1988-89 e che pure avrebbe avuto una maggioranza in Parlamento), nasce dal 1990 la c.d. strategia referendaria: cioè il tentativo di imporre dal basso quelle riforme che i partiti delle maggioranze dell’epoca non erano disposti a varare, facendo ricorso all’arma del referendum abrogativo (l’unica a disposizione). Furono i referendum elettorali, insieme – poi – alle inchieste delle magistratura sull’illecito finanziamento della politica (“mani pulite”) a determinare il crollo del sistema partitico che aveva caratterizzato i primi decenni dalla Liberazione in poi (1946-1993).

Per questo la storia delle riforme è assai lunga, con particolare riferimento a ciò che avrebbe dovuto rendere le nostre istituzioni politiche più semplici, più efficienti, più in grado di rispondere alle aspettative dei cittadini, meno costose.
Come si è visto, per certi aspetti limitati, si cominciò a parlarne sin dalla Prima legislatura (1948-1953). Del resto negli anni numerose sono state le revisioni costituzionali condotte in porto: ma sempre su punti limitati della Costituzione. Unica eccezione la revisione dei Titolo Quinto della Parte Seconda, quello che si occupa di Stato, Regioni, enti locali – largamente riveduto nel 2001 (e nel 1999) in tutti i suoi venti articoli.

Nel complesso dal 1948 al 2012 le leggi di revisione costituzionale sono state quindici. Ma per quel che riguarda l’assetto del Parlamento e il superamento del bicameralismo indifferenziato o c.d. perfetto (due camere entrambe direttamente elette e dotate degli stessi identici poteri), la riforma è entrata nell’agenda della politica italiana a partire dai primi anni Ottanta (in pratica 35 anni fa). Se ne sono occupate soprattutto Commissioni parlamentari istituite a tale specifico scopo (e anche per rivedere più ampiamente la Costituzione e in particolare la sua Seconda Parte) e commissioni istruttorie governative. Inoltre in un’occasione il Parlamento ha varato una riforma, che poi è stata bocciata dal successivo referendum.

Le tappe principali sono state:

Commissione bicamerale c.d. Bozzi (dal nome del suo presidente), 1983-1985;
Commissione bicamerale c.d. De MitaIotti, 1992-1994;
Comitato Speroni, governo Berlusconi I, 1994;
Commissione bicamerale D’Alema, 1997-1998;
Comitato Brigandì, governo Berlusconi II, 2002-2004;
Progetto di revisione approvato dalle Camere, 2005;
Referendum costituzionale che ha bocciato il progetto approvato dalle Camere, 2006;
Progetto della I Commissione della Camera (c.d. Violante), 2007;
Commissione di esperti (c.d. Quagliariello), istituita dal Governo Letta, 2013.

Come si vede – anche senza citare tutti i diversi tentativi avviati (per esempio nel 1990 il Senato varò una miniriforma delle Camere, poi affossata; nel 2012 parimenti fu il Senato a varare un progetto destinato a rimanere, a sua volta, lettera morta) – la successione dei solenni impegni in materia appare impressionante e caratterizzata da un’evidente continuità: che risulterebbe ancora più clamorosa se si mettessero a raffronto le soluzioni elaborate, tutte diverse – naturalmente – per taluni aspetti, ma tutte ugualmente orientate a perseguire l’obbiettivo di fondo: il superamento di un Parlamento caratterizzato da una specie di monocameralismo duplicato, cioè da due Camere diverse solo per aspetti marginali, ma sostanzialmente l’una il doppione dell’altra.

Terza di una serie di puntate tratte dalla guida alla riforma costituzionale scritta dal prof. Carlo Fusaro. La prima è consultabile qui, la seconda qui 


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