Altro che rottamare, come Matteo Renzi almeno per un po’ ha mostrato di voler fare, col metro solo o prevalentemente anagrafico, allo scopo di ringiovanire e rafforzare la politica. E con la politica, il Paese.
Da un po’ di tempo, pur essendo ancora lontano dai 12 ai 15 anni dalla loro età, più leggo o ascolto uomini come Giorgio Napolitano, Eugenio Scalfari e Cesare Romiti, più mi chiedo di che cosa possano vantarsi i giovani che detengono il potere, o se lo contendono, avendo solo il vantaggio di essere appunto giovani. Che, ripeto, è solo un vantaggio, casuale in quanto non voluto da loro, e quindi non un merito.
Cominciamo dal più anziano di tutti: Cesare Romiti, 93 anni compiuti. Intervistato da Aldo Cazzullo, per il Corriere della Sera, sembra ancora un giovanotto pieno di energia e di idee, a volte sin troppo coraggiose e generose. Come quella di considerare Beppe Grillo e il suo movimento 5 Stelle, tutto sommato, una risorsa per il Paese avendo loro riconosciuto di avergli dato “una scossa positiva”, pur al netto dei loro errori e della confusione che stanno producendo in quantità direi industriale in Campidoglio e dintorni.
Di scosse –vorrei dire a Romiti- si può anche morire. E glielo direi con la stessa sincerità con la quale al telefono, dalla direzione del Giorno, dopo una polemica a distanza, gli confermai di non condividere l’interesse, se non l’entusiasmo, con cui alla guida della Fiat egli seguiva il fenomeno della Lega di Umberto Bossi. L’allora collaboratore di Gianni Agnelli era arrivato a dire che avrebbe votato per il Carroccio se avesse potuto: non lo faceva solo perché non votava al Nord ma a Roma, dove i leghisti non si erano ancora avventurati.
A parte comunque le sue eccessive speranze ieri per Bossi e oggi per Grillo, è difficile dare torto a Romiti quando fa l’elenco di ciò che si aspettava e non ha visto fare da Matteo Renzi, circondatosi da troppi fedeli e improvvisatori, preoccupato di mettere alle pareti più belle “cornici” che tele, come la riforma del lavoro, chiamata in inglese –aggiungo io- forse per pudore, contando sul fatto che in Italia sono più quelli che non lo parlano.
Quello che forse Romiti non ha avuto il coraggio o il buon cuore di riconoscere è che Renzi non potrebbe fare di più col partito che ha alle spalle, cioè che non ha. Un partito in cui mentre il segretario legittimamente eletto con primarie e congresso, nonché presidente del Consiglio, si sta giocando praticamente tutto col referendum sulla riforma costituzionale, nasce in una delle sezioni più storiche di Roma, quella di Testaccio, con un’assemblea partecipata da iscritti anche di altre sezioni della città, della provincia e della regione, qualcosa che sembra l’embrione di una scissione: “I democratici per il no”.
E’ un no che riguarda solo apparentemente la riforma costituzionale, essendo in realtà un no a tutto ciò che fa ed è Renzi: l’uomo che “va dove lo porta il cuore”, cioè a destra, come gli ha rimproverato l’ex segretario del partito Pier Luigi Bersani, di cui gli amici hanno già preannunciato il no anche alla proposta che il presidente del Consiglio si accinge a fare alla direzione per modificare la nuova e non ancora applicata legge elettorale della Camera. Che è considerata da molti, a cominciare paradossalmente dallo stesso Bersani, ostativa al sì al referendum del 4 dicembre.
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Romiti nella sua intervista al Corriere della Sera non ha voluto rivelare la decisione che ha “quasi” preso sul referendum costituzionale. L’altro grande vecchio, Eugenio Scalfari, 92 anni già compiuti, invece ha appena spiegato ai lettori della sua Repubblica che voterà sì se prima del 4 dicembre verrà formalizzata davanti alle Camere una proposta di modifica della legge elettorale, cui la ormai imminente riunione della direzione del Pd dovrebbe essere propedeutica. Altri motivi ostativi per Scalfari non ce ne sono. Non è questione di renzismo e antirenzismo, egli ha scritto riferendosi a quanti, come il suo amico presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, mostrano di ritenere quando dicono che la riforma è l’abito giusto per un oligarca come Renzi, non per un democratico.
Anche a costo di provocare altre proteste di lettori, già in affanno per ammissione dello stesso direttore del giornale, Mario Calabresi, il fondatore Scalfari ha ricordato a Zagrebelsky già nel titolo del suo editoriale festivo che “in democrazia sono pochi al volante e molti i passeggeri”. L’oligarchia, cioè, a dispetto delle apparenze, altro non è che “la casse dirigente”, proiezione e non antitesi della democrazia perché “così e sempre stato: nella civiltà antica, medievale e moderna”.
Poiché pensare di governare un Paese con continui referendum, lasciando cioè decidere direttamente agli elettori, facendo a meno dei partiti e del Parlamento, “è pura follia”, la vera e unica alternativa all’oligarchia, secondo Scalfari, è “la dittatura”. Democratico, a questo punto, è solo l’aggettivo che l’oligarchia si deve meritare guadagnandosi la fiducia di un Parlamento legittimamente eletto e rappresentativo.
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Ebbene, sullo stato in cui si è ridotto il Parlamento con le vecchie regole costituzionali, che obbligano tutti i governi, di ogni colore ormai, ad abusare dei decreti legge per sottrarsi alla lunghezza delle procedure di un bicameralismo “paritario”, quale fu quello voluto dai costituenti e che la riforma appunto modifica, ha recentemente detto cose assai ragionevoli, con l’esperienza fattasi per nove anni al Quirinale, Giorgio Napolitano, anche lui ormai sopra i 90 anni, avendone compiuto 91.
Il presidente emerito della Repubblica, attaccato un giorno sì e l’altro pure per il sostegno che sta dando alla campagna per la conferma referendaria della riforma costituzionale, ha testimoniato alla scuola del Pd, davanti a molti giovani giustamente incuriositi e generalmente assenzienti, le proteste che soleva raccogliere al Quirinale dalle opposizioni di turno contro le forzature parlamentari costituite dai decreti legge e dalle leggi finanziarie modificate all’ultimo momento con l’artificio di un solo articolo composto da migliaia di commi e votato in una unica soluzione ricorrendo alla cosiddetta questione di fiducia.
E’ obiettivamente difficile sostenere che il Parlamento venga mortificato più da chi intende cambiarlo che da chi, bocciando la riforma, se le vuole tenere com’è, con le sue lungaggini e con le forzature cui si ricorre ormai abitualmente per rimediarvi.
Evviva quindi i vecchi. Che il Signore ce li conservi ancora a lungo, per quanto appaiano spesso ombrosi e supponenti.