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Vi racconto le ultime baruffe azzurre fra Brunetta e Confalonieri su Renzi e referendum

Mara Carfagna e Fedele Confalonieri

Ora non è più il fotomontaggio dichiarato del Fatto Quotidiano di Marco Travaglio l’abbraccio tra il presidente della Mediaset berlusconiana Fedele Confalonieri e il presidente del Consiglio Matteo Renzi. Non è più uno spiffero la voglia di Confalonieri di votare sì al referendum costituzionale del 4 dicembre, nonostante il no annunciato o addirittura ordinato dal suo amico di una vita Silvio Berlusconi, e gridato sino all’ossessione dal capogruppo forzista della Camera Renato Brunetta. Che non è imbarazzato ma addirittura entusiasta di trovarsi su questo fronte con i grillini, i vendoliani, Massimo D’Alema, Gustavo Zagrebelsky, la corrente togata di Magistratura Democratica, Antonio Ingroia, l’imperdibile Maurizio Crozza che lo imita amputandogli le gambe dal ginocchio in giù, e infine, ma proprio alla fine, con gli amatissimi leghisti di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, cioè con gli alleati dai quali separarsi sarebbe per lui un disastro: l’equivalente dell’uragano Matthew in corso dall’altra parte dell’Atlantico.

Ora la voglia del sì referendario dell’amico più familiare di Berlusconi è confermata in prima pagina dal Corriere della Sera. Dove si legge che tra le tante cose che non vanno in Italia Confalonieri inserisce la sensazione che faccia “fino dire: io voto no”. Egli si chiede inoltre dove e perché gli avversari di Renzi siano sicuri che perda il referendum.

L’unica prudenza, tutta tattica, che si è concessa Confalonieri è quella di avere chiesto e ottenuto che fosse pubblicata come “colloquio”, con le licenze di una chiacchierata confidenziale, la sostanziale intervista fatta a Francesco Verderami. Che ha lodevolmente e sapientemente conservato con lui rapporti che risalgono ai lontani tempi nei quali collaborava con uno dei primi programmi politici della Tv del Biscione: Parlamento in. Rapporti che gli consentono, quando parla con Confalonieri, di “scorgere” bene “l’ordito del suo ragionamento”.

Volente o nolente – e non chiedetemi, per cortesia, come io personalmente la pensi – il “colloquio” del presidente di Mediaset, date la sua amicizia con l’ex presidente del Consiglio e la partecipazione avuta nei mesi scorsi alla cabina di regia formatasi al capezzale di Berlusconi nell’ospedale milanese in cui era stato ricoverato per un serio intervento al cuore, dà l’immagine plastica di una Forza Italia divisa fra il no e il sì. Una divisione, peraltro, appena certificata a livello di elettorato da un sondaggio. Una divisione –aggiungo- che sospetto non faccia dispiacere a Berlusconi. Il quale si trova a giocare politicamente una doppia partita, del resto avvertita e lamentata dall’alleata Giorgia Meloni. Che, secondo indiscrezioni di stampa non smentite, sarebbe uscita con Matteo Salvini dall’ultimo incontro con Berlusconi, conclusosi con la conferma del no congiunto alla riforma costituzionale, chiedendo al segretario leghista: “Quanto durerà?”.

D’altronde, avendo forse imparato a conoscere Berlusconi durante i mesi del famoso “Patto del Nazareno” più di quelli che lo frequentano da maggior tempo, quel furbacchione di Renzi ha detto di recente, anche a costo di procurare un infarto al povero Pier Luigi Bersani, ch’egli conta di vincere il referendum costituzionale “a destra”. Cioè, compensando i no di sinistra con i sì dell’altra parte, raccomandati all’elettorato della ex “Casa delle libertà” e di Forza Italia anche da personaggi ad esso familiari come l’ex presidente del Senato Marcello Pera e l’ex ministro Giuliano Urbani, per non parlare naturalmente dei transfughi Angelino Alfano, Marcello Lupi e Fabrizio Cicchitto, cioè del Nuovo Centro Destra nato tre anni fa da una scissione del partito di Berlusconi.

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Matteo Renzi non solo conta di vincere il referendum della sua vita con i voti di destra, dato che a sinistra sono sordi a qualunque concessione egli voglia fare sul versante della odiatissima e temutissima legge elettorale della Camera chiamata Italicum, ma non si lascia scappare occasione per smentire con gli atteggiamenti l’ammissione pubblica, strappatagli dall’amico presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, e probabilmente anche da quello effettivo Sergio Mattarella, di avere sbagliato personalizzando nei mesi scorsi il referendum. Cioè minacciando le dimissioni in caso di sconfitta.

In un editoriale sulla Stampa, scritto dopo avere avuto con lui un dibattito pubblico a Torino, Massimo Gramellini ha trovato conferma delle confidenze attribuite a Renzi con gli amici, che sia cioè deciso in caso di sconfitta referendaria a “cambiare mestiere”. Che è qualcosa di più ancora che dimettersi da presidente del Consiglio. I suoi irriducibili avversari di partito, ancora increduli che abbiano potuto perdere le primarie e il congresso di tre anni fa, possono quindi tornare a sperare di liberarsene anche come segretario, sempre che naturalmente i loro no al referendum si riveleranno superiori ai sì che Renzi ragionevolmente si attende da destra, nonostante gli scongiuri del suo predecessore, convinto che il successore vada “dove lo porta il cuore”.

Ad alzare il morale del presidente del Consiglio, e ad abbassare conseguentemente quello degli avversari, sono anche le notizie provenienti da Bruxelles sulla “flessibilità” che la Commissione Europea potrebbe concedergli nei conti, cioè nella preparazione della legge di stabilità, ex finanziaria, del 2017 in considerazione delle spese d’emergenza per i tanti profughi che continuano a sbarcare sulle coste italiane, e che tanta parte d’Europa non vuole contribuire ad ospitare, per i soccorsi ai terremotati dell’Italia centrale e per la protezione del territorio nazionale più esposto ai rischi sismici.

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Secondo un copione già sperimentato da Berlusconi quando era lui a guidare il governo, e purtroppo dimenticato da molti suoi amici, le opposizioni in Italia lasciano sempre solo il presidente del Consiglio di turno nei rapporti con i gestori dell’austerità di conio tedesco nell’Unione Europea.

Il sentimento della solidarietà nazionale, se non vogliamo chiamarla patriottica per non spaventare gli allergici a questo aggettivo, che sono tanti, è purtroppo estraneo a molta parte dello schieramento politico italiano: di sinistra ma paradossalmente anche di destra.


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