Nel variegato fronte che si è schierato per il No alla riforma costituzionale la Cgil finora non si è fatta notare troppo. A parte qualche fuoco d’artificio di Maurizio Landini, che ha la necessità di tenere accessi i riflettori su un’immagine ultimamente un po’ appannata, il sindacato guidato da Susanna Camusso ha evitato toni troppi accesi. Qualcuno sostiene che la prudenza sia dettata dal gioco degli equilibri interni, nel quale lo Spi, la potentissima categoria dei pensionati, si è ritagliata un ruolo di cerniera nei confronti del Pd, lasciando libertà di coscienza ai suoi iscritti.
Può darsi però che via siano anche altre ragioni alla base della timidezza con cui questa volta la Cgil si è schierata a guardia del sacro Graal costituzionale, in un tempo non lontanissimo difeso a furia di anatemi contro chiunque osasse profanarlo. L’imbarazzo potrebbe essere una di queste. Viene spontaneo pensarlo dopo aver letto sul Corriere dell’Umbria l’articolo di Nicola Preiti, dirigente delle Cgil medici che mesi fa, in disaccordo con la linea politica della casa madre, ha dato le dimissioni e che oggi, “da semplice iscritto”, si dice sconcertato per il No alla riforma.
Riforma che, obietta al suo ex sindacato, solo due anni fa veniva tratteggiata in modo pressoché identico dal documento congressuale che ha accompagnato la rielezione di Susanna Camusso al vertice. Preiti ha ragione. In quel documento la Cgil si proclamava a favore del superamento del bicameralismo perfetto e per l’istituzione di una Camera delle Regioni e della autonomie locali, chiedeva la fine del pasticciato regionalismo introdotto nel 2001 con la riforma del Titolo V rafforzando la “funzione regolatrice nazionale”, invocava il “quorum mobile” per rivitalizzare l’istituto del referendum.
Matteo Renzi potrebbe rivendicare a petto in fuori: fatto. Ma allora perché, chiede Preiti, la Cgil vota no? Vallo a capire. Potremmo anche prendere per buone le motivazioni che la stessa Cgil elenca in un altro documento, quello con cui ad inizio settembre l’assemblea generale ha “invitato” i suoi militanti a votare No. Potremmo, ma dopo averle lette francamente ci riesce difficile. Per evitare di inerpicarci in una faticosa esegesi lungo una parete di sesto grado del politichese, sintetizziamo: il bicameralismo viene superato, ma non abbastanza; la riscrittura del titolo V riduce il potere delle Regioni, ma lo riduce troppo; la riforma dell’istituto referendario c’è, ma il documento non ne parla. Un capolavoro di benaltrismo. Sugellato ovviamente dalla clausola di stile imposta dall’ortodossia antireferendaria, che la Cgil declina così: c’è “un rischio evidente di concentrazione dei poteri e delle decisioni: dal Parlamento al Governo, dalle Regioni allo Stato centrale”. Ecco servita la deriva autoritaria. Oggi la denunciano, ieri la invocavano. Ma la domanda resta la stessa: perché la Cgil vota no?