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Come sarà il Patto del Nazareno alla Barbara D’Urso fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi

Silvio Berlusconi
La prossima volta, se la politica riuscirà a sopravvivere al pasticciatissimo referendum di domenica prossima sulla riforma costituzionale, quando l’accozzaglia dei No dovrà necessariamente scomporsi, anche se le dovesse capitare la fortuna di vincere, perché non è elettoralmente e parlamentarmente in grado di trasformarsi in un’alternativa di governo a Matteo Renzi, potrà esserci un nuovo attore, anzi un’attrice, sulla scena.
Barbara D’Urso, la non più giovanissima ma sempre carina conduttrice del pomeriggio domenicale di Canale 5, la rete ammiraglia di Mediaset, senza forse rendersi conto di giocare col fuoco in un ambiente affollatissimo di ambasciatori e mediatori, veri o presunti che siano, ma tutti ben decisi a difendere i loro antichi spazi di manovra, si è offerta a promuovere nel suo studio televisivo una nuova edizione dell’ormai famosissino ma naufragato Patto del Nazareno fra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Che erano stati appena suoi ospiti in orari studiati apposta per evitare che s’incontrassero, anche solo nelle postazioni del trucco: l’uno avendo un appuntamento con i suoi medici per i soliti controlli al cuore, ristabilitosi dopo l’intervento estivo ma ancora sofferente -aveva raccontato lui stesso- per i 73 processi subiti in 22 anni, le 3.600 udienze e non so quanti milioni di euro pagati ai legali, senza parlare del mezzo miliardo versato a Carlo De Benedetti per la guerra di Segrate- e l’altro dovendo correre ad altre manifestazioni per strappare gli ultimi Sì referendari agli indecisi, pur in un clima forse rassegnato alla sconfitta, almeno stando ai sondaggi travestiti da scommesse sui cavalli o qualcosa di simile che scorrono per internet.
La D’Urso, d’altronde era stata gentile con entrambi: con Berlusconi, il suo editore e amico, trovandolo in condizioni fisiche migliori di sempre, e con Renzi, amico pure lui, trovandolo ingrassato, come lo stesso ospite confessava di sentirsi, ma ugualmente “bellino”.
Pure il nome “Nazareno”, con la maiuscola, potrebbe salvarsi in una sua eventuale riedizione televisiva, di certo più trasparente dell’altra, perché nell’omonima strada o piazzetta del centro di Roma, a pochi passi dalla Camera, continuano ad esserci, una quasi di fronte all’altra, le sedi del Pd e gli uffici di rappresentanza di Mediaset, dove Fedele Confalonieri e Gianni Letta si dividono gli ambienti migliori.
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Un nuovo Patto del Nazareno, magari in versione, diciamo così, televisiva, è un obiettivo esplicitamente perseguito da Berlusconi per ragioni  “di senso dello Stato e di responsabilità”, per ripetere le parole da lui stesso usate in un recente colloquio col presidente della Repubblica Sergio Mattarella parlando degli scenari post-referendari. Ma anche, o soprattutto, per sottrarsi all’assedio del segretario leghista Matteo Salvini, al quale non è bastato il sacrificio dell’ormai ex “federatore” Stefano Parisi, rimosso dal presidente di Forza Italia per avere attaccato lo stesso Salvini.
Anche senza avere più Parisi fra i piedi, o fra le mani, e nonostante gli sgambetti che cerca continuamente di fargli Umberto Bossi, insofferente della spavalderia del suo successore, il capo della Lega continua a coltivare l’ambizione di guidare lui una eventuale riaggregazione di quello che fu il centrodestra. Ed ha reagito abbastanza male, facendo spallucce visibilissime e riproponendo le primarie, al proposito dichiarato da Berlusconi di ricandidarsi lui a capo del centrodestra anche la prossima volta, se i giudici di Strasburgo si decidessero a dargli ragione nel ricorso giacente da tempo e gli restituissero l’agibilità elettorale ancora preclusagli per ragioni giudiziarie.

Bisognerà però vedere se Renzi avrà lo stesso interesse di Berlusconi, comunque motivato, a rifare un accordo con lui dopo il referendum. Il presidente del Consiglio ha un suo caratterino, che Confalonieri esita a definire cattivo, come quello dello sfortunato Parisi, per ragioni di cortesia e convenienza. Egli non ha certamente gradito, pur avendone tolto il viso nel montaggio fotografico dell’accozzaglia del No, la partecipazione dell’ex Cavaliere alla sua rappresentazione di potenziale dittatore, o quasi, arrivato a farsi una legge elettorale e una riforma costituzionale a misura delle sue ambizioni di potere. E profittando del fatto di essere rimasto l’”unico” leader in campo per gli impedimenti giudiziari del concorrente presumibilmente più valido.

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In questa fase conclusiva della lunga, onestamente troppo lunga campagna referendaria, Renzi sta resistendo con forza crescente, altro che declinante, alla pretesa o al tentativo dei suoi avversari interni di partito di lasciarlo al suo posto anche in caso di vittoria del No solo per poterlo più facilmente logorare sia come presidente del Consiglio sia come segretario del Pd.
Potrebbe tradursi in logoramento per il giovane ex sindaco di Firenze anche un’eventuale nuova intesa extra o para-governativa con Berlusconi, che non usa fare accordi senza ricavarne vantaggi: in questo caso senza un sostanziale ritorno al vecchio sistema elettorale proporzionale. Che potrebbe anche garantirgli la partecipazione ad ogni partita, ma in passato ha prodotto governi della durata media di un anno, in qualche caso anche meno.

Renzi sembra disposto a rimanere al suo posto, come vorrebbe anche il presidente della Repubblica, solo se in grado di condurre il gioco, non di subirlo. In caso contrario, se cioè si sentisse troppo stretto e assediato, il presidente del Consiglio sta insistentemente avvertendo i suoi interlocutori, politici e istituzionali, che l’unica alternativa a lui sarebbe un “governicchio tecniticchio”, come ironicamente lo chiama, destinato a ripercorrere la strada degli aumenti fiscali e dell’esecuzione degli ordini di Bruxelles o Berlino seguita dal governo supertecnico di Mario Monti, rimpianto e riproposto non a caso, con un’autorete di cui Renzi sta profittando alla meglio, dal settimanale inglese Economist in un numero forse sfuggito al controllo del suo stesso direttore, oltre che degli azionisti, fra cui gli Agnelli, naturalmente con la maiuscola.


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