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Cosa succederà al governo Renzi in caso di vittoria del No al referendum

Non ci crederete. Eppure vi assicuro che più mi aggiro nei palazzi della politica più vedo volti preoccupati: non fra quelli schierati sul fronte referendario del Sì alla riforma costituzionale, per quanto dati per perdenti dagli ultimi sondaggi pubblicabili, ma fra quelli schierati sul fronte del No. Che probabilmente un po’ non si fidano dei sondaggi e dei sondaggisti, usciti effettivamente con le ossa rotte dalla Brexit e dalle elezioni americane, solo per parlare degli ultimi appuntamenti con le urne a livello internazionale, e un po’ cominciano a temere di vincere davvero, viste le ultime posizioni assunte da Matteo Renzi celebrando i mille giorni del suo governo. Dei quali, pur riconoscendo che gli ultimi quindici, quanti sono quelli che lo separano dal referendum costituzionale del 4 dicembre, sono quelli cui tiene di più, nel bene e nel male, egli è a suo modo orgoglioso, per quanti sforzi facciano i suoi avversari di contestarne o minimizzarne i risultati.

D’altronde, è già un succcesso il fatto che quelli di Renzi siano diventati mille, senza fermarsi ai trecento o seicento giorni di alcuni dei governi che l’hanno preceduto nella cosiddetta seconda Repubblica, pur cominciata con gli obiettivi della stabilità e di tante altre belle cose all’ombra del sistema elettorale succeduto al vecchio e bistrattato proporzionale della prima.

Le preoccupazioni dei signor No trattenute sui visi e non dichiarate per comprensibili ragioni di opportunità, anzi di opportunismo politico, nascono dal fatto che Renzi rischia di guadagnare sia da una vittoria, naturalmente, sia da una sconfitta referendaria dopo aver messo le mani avanti avvertendo ch’egli non si presterà né direttamente, né indirettamente – penso – come segretario del maggiore partito rappresentato in Parlamento, a quelli che lui chiama “governicchi”, con o senza l’aggettivo “tecnico”, o varianti sarcastiche.

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Non lo dice apertamente per ovvio rispetto verso il presidente della Repubblica, che peraltro egli ha voluto fare eleggere al Quirinale anche a costo di rompere quel “patto del Nazareno” con Silvio Berlusconi che gli avrebbe fatto molto comodo per portare avanti la riforma costituzionale, ma Renzi sa che in caso di sconfitta referendaria e di dimissioni, dovute per ragioni quanto meno di coerenza, o di eleganza politica, gli spetta un passaggio parlamentare: cioè, un rinvio davanti alle Camere per verificare se dispone ancora di una maggioranza.

L’articolo 94 della Costituzione è chiaro: “Il Governo –con la maiuscola- deve avere la fiducia delle due Camere”, che a Renzi l’hanno accordata, anche più volte, e mai negata.

L’articolo 94 dice anche che “il voto contrario di una o di entrambe le Camere su un proposta del Governo – sempre con la maiuscola – non importa l’obbligo di dimissioni”. Se vale per le Camere, ancora più questa regola deve valere, in caso di referendum, per gli elettori. Ai quali la Costituzione riconosce il diritto di eleggere le Camere e di confermare o bocciare referendariamente leggi ordinarie o modifiche alla Costituzione, ma non di sfiduciare con ciò stesso chi governa.

Nel passaggio parlamentare al quale Renzi ha diritto le opposizioni, di destra e di sinistra, ma anche quelle pur minuscole di centro che esistono, continueranno sicuramente a negare la fiducia al governo, che mi permetto di scrivere con la minuscola perché considero troppo retorica, per la casistica italiana, la maiuscola del testo costituzionale. Ma le minoranze del Pd, pur schierate sul fronte referendario del No alla riforma, hanno avvertito – dal più morbido al più duro esponente – che non vogliono né promuovere né sentir parlare di crisi di governo, rimproverando a Renzi di averla minacciata. Esse –sempre le minoranze del Pd- mirano a tenere in piedi un Renzi indebolito a Palazzo Chigi, magari sperando di potersene più facilmente sbarazzare poi come segretario del partito, con un congresso forse anticipato, o addirittura senza congresso. Da quelle parti la disinvoltura è di casa.

Ma l’indebolimento di Renzi e del suo governo, ridotto a quel “governicchio” di cui lo stesso presidente del Consiglio ha parlato più volte in questi giorni, non dipende tanto dalle minoranze del Pd, troppo deboli e divise fra di loro per trasferire nelle aule parlamentari a mo’ di guerriglia le convergenze referendarie con grillini, berlusconiani, salviniani, meloniani eccetera, quanto dallo stesso Renzi. Del quale, ad occhio e croce, non mi pare che si possa dire votato all’autoflagellazione.

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Renzi col suo governo post-referendario, del quale prima o dopo si farà una ragione anche il presidente del Senato Pietro Grasso, se sono vere le voci che lo raffigurano come aspirante o disponibile ad un nuovo governo di natura “istituzionale”, dovrà completare il percorso parlamentare del bilancio, gestire i rapporti internazionali, ospitare il vertice europeo di primavera in Campidoglio per i 60 anni dei trattati comunitari – e tutti sanno quanta importanza egli attribuisca a questo  appuntamento, anche per portare avanti i suoi progetti di cambiamenti a Bruxelles – e modificare la legge elettorale nota come Italicum: si vedrà se entro o oltre i limiti delle mutilazioni previste da parte della Corte Costituzionale, che ha notoriamente rinviato il suo verdetto a dopo il referendum.

E’ ovvio che, una volta bocciata la riforma costituzionale, la legge elettorale dovrà essere cambiata anche per essere applicabile al sopravvissuto Senato della Repubblica. Poi non ci sarebbe altro onestamente da fare che andare alle elezioni.

Non mi sembra, francamente, che questo programma e la personalità di Renzi consentano a cuor leggero di poter parlare di un “governicchio”. E’ ciò di cui si stanno rendendo conto probabilmente anche i signor No, per cui se ne capisce il malumore. Il diavolo, si sa, fa le pentole ma non i coperchi.

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