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Dentro “La nuova fabbrica dei sogni” di Aldo Grasso e Cecilia Penati

“La nuova fabbrica dei sogni” made in Usa di Aldo Grasso e Cecilia Penati produce circa 500 serie televisive ogni anno. Da quando parte di esse approdano nei piccoli schermi italiani, si è venuta a formare quella che gli autori chiamano la “televisione di qualità”. Una specie assai rara da produrre in Italia per via degli alti costi e dell’assenza di una vera industria di produzione e a causa di qualche vizio autoriale di troppo, sostengono Aldo Grasso, critico televisivo e professore ordinario di Storia della radio e della televisione all’Università Cattolica di Milano, e Cecilia Penati, docente e autrice con Anna Sfardini di “La tv delle donne. Brand, programmi e pubblici”. Ecco i segreti delle routine di produzione americane e i limiti della fiction italiana raccontati da Grasso e Penati, autori del volume “La nuova fabbrica dei sogni. Miti e riti delle serie tv americane” (Il Saggiatore), in questa conversazione con Formiche.net.

UN TITOLO PROVOCATORIO

Il titolo del libro nasce da una provocazione: “Fabbrica dei sogni era il titolo un po’ spregiativo che la pubblicistica italiana assegnava ad Hollywood”, spiega Grasso raccontando che “di fronte all’esperienza europea del cinema neorealista Hollywood era considerata una macchina infernale che creava sogni e distraeva dalla realtà”. Poi qualcosa è cambiato: “Per fortuna si è scoperto che anche i sogni hanno una loro importanza nella vita. Noi abbiamo utilizzato questo termine un po’ provocatoriamente, alla luce del forte impatto delle serie statunitensi e dalla constatazione che ancora una volta sui giornali italiani si è arricciato il naso nei confronti dei prodotti provenienti dall’America”.

LA RAPPRESENTAZIONE DEL MALE

Ma bisogna riconoscere che molte serie più che sogni sono incubi. “È vero, i nuovi eroi della serialità televisiva, se hanno una caratteristica comune, è che sono tutti eroi negativi, che hanno a che fare con il male.  Il male esiste – spiega Grasso – , non è un’invenzione delle serie americane, ne hanno sempre parlato i più grandi scrittori, e proprio per questo è molto più interessante chi ha capacità di descrizione del male, chi sa penetrarlo e rappresentarlo piuttosto che chi preferisce creare un tipo di letteratura in cui poi il male viene nascosto sotto il tappeto come si fa con la polvere. E purtroppo molta fiction italiana si comporta in questa maniera. Per cui di fronte alla crudità di certe serie, e di fronte all’angoscia che creano, c’è sempre chi invoca una rappresentazione più morbida e più educativa”.

QUALITÀ AD ALTO COSTO

La serialità d’oltreoceano, raccontano gli autori nel volume, rimessa in onda sulle nostre televisioni, ne rappresenta un elemento di elevata qualità. “Senza dubbio questi prodotti hanno un approccio stilisticamente molto raffinato ed esteticamente molto bello – osserva Penati -. Ma il termine qualità riferito alle serie tv americane è inteso per indicare che queste serie hanno valori di produzione molto alti, sono scritte con una grande competenza e attenzione alle sceneggiature, la regia è sempre curatissima, c’è uno showrunner che supervisiona tutto il processo creativo e realizzativo. La qualità è un modo di fare le cose con una certa professionalità industriale che negli Stati Uniti ha ormai una storia molto lunga alle spalle”.

Una dimensione quindi estremamente correlata a quella dei costi. “Stiamo parlando del sistema industriale più avanzato al mondo per quanto riguarda i mezzi di comunicazione. Le serie televisive possono contare su investimenti molto più alti rispetto a quelli medi applicati in Italia, anche perché poi sono prodotti che vengono distribuiti in tutto il mondo, cosa che garantisce un rientro di tutti questi costi che ci sono alla base”. Per l’Italia Penati riporta l’esempio di Gomorra, “una fiction ad alto costo, che è stata anche capace di viaggiare in giro per il mondo, dall’America ad altri paesi europei”, osserva la co-autrice del libro”.

LA NUOVA LETTERATURA

Da qualche anno nel nostro Paese si parla della serialità televisiva come della nuova letteratura. “Semplicemente perché queste serie hanno una durata estesa nel tempo che permette un approfondimento dei personaggi e delle storie, che è superiore a qualsiasi altro mezzo di comunicazione. La complessità di scrittura che hanno raggiunto le serie americane più di prestigio è pari a quella della letteratura. Se ogni epoca ha la sua forma espressiva di riferimento, credo che le serie tv siano quella dei nostri giorni”, spiega Penati.

LE ROUTINE DI PRODUZIONE

L’America è un sistema industriale che ha delle routine di produzione del prodotto audiovisivo molto specifiche. “C’è una figura che in Italia non esisteva, e quasi non esiste ancora adesso, e che indubbiamente fa fare un passo avanti sulla scrittura”. Grasso fa riferimento alla figura dello showrunner, “che è qualcosa di diverso dall’idea che abbiamo noi di autorialità. È un autore che si sporca le mani, che deve fare i conti veri sui costi, che deve anche occuparsi di produzione e di regia”.

“La figura dello showrunner – sottolinea poi Penati -, che noi potremmo paragonare in qualche modo all’autore, è allo stesso tempo creativa ma anche manageriale. Questo non comporta il fatto che si trascuri la parte più creativa perché l’impronta di un autore di una serie tv si riconosce immediatamente, pensiamo a Shonda Rhimes di Grey’s Anatomy o ad altri prodotti di quel genere, o a Matthew Weiner che ha lavorato ai Soprano e a Mad man.

I PROBLEMI DELLA FICTION ITALIANA

Grazie alle serie prodotte negli Stati Uniti, si è realizzata una riqualificazione della figura dell’autore che nel nostro Paese fatica ad imporsi. “In Italia qualcosa c’è, ma manca tutto il sistema produttivo americano. Romanzo criminale, Gomorra, e le serie della Taodue di Pietro Valsecchi, sono state forse il primo esempio di produzione che riproduce alcuni canoni della serialità americana”, commenta Grasso spiegando che quello della fiction italiana è un “problema serio e molto radicato negli anni” perché “non siamo stati abituati a fare certi tipi di produzione”: “Salvo rari casi non abbiamo più l’abitudine ad essere un po’ più coraggiosi, a rischiare, a pensare in grande”. Un esempio? “Sky ha fatto “Romanzo criminale” e “Gomorra”, due serie che hanno fatto bene sperare. Peccato che poi abbia fatto “The Young Pope”, l’anti-serie per eccellenza, una serie che in America non succederebbe mai, scritta e diretta da un solo autore, una specie di sogno rinascimentale. Nella produzione americana una serie è un’opera collettiva, invece in Italia abbiamo questo vizio autoriale che fa parte della nostra cultura. C’è da costruire un’industria. Bisogna riconoscere che alcuni produttori hanno capito che un lavoro fondamentale è proprio avere l’umiltà di copiare, ovvero vedere come fanno gli altri, quindi negli ultimi anni abbiamo avuto prodotti anche di qualità”, conclude il critico televisivo.

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