Gli elementi di crisi latenti nel processo di globalizzazione sono esplosi all’improvviso nell’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Fattori diversi hanno contribuito a quella vittoria, non ultimo l’eccessivo spiegamento di forza mediatiche che ha accompagnato la “resistibile ascesa” di Hillary Clinton. Un pugno allo stomaco all’intero establishment. I pochi winner di questa lunga fase storica che si era aperta agli inizi degli anni ’80. Ma che ora mostra tutte le rughe dovute al trascorrere del tempo. La tipologia dei vincitori era ben nota all’elettorato americano. Gli uomini dello star system, giornalisti e anchormen, manager e banchieri: da un punto di vista professionale più apolidi che americani. Le cui fortune si devono a un mondo reso sempre più piccolo dalla tecnologia e da un mercato internazionale che sovrasta i confini nazionali.
Donald Trump ha cercato di interpretare – vedremo se le sue politiche saranno poi coerenti – la negazione di quest’universo. In un appello anche rozzo ai temi della tradizione e dei valori ancestrali della società americana. Negando, pertanto, in radice che la globalizzazione possa ancora essere quel paradiso terrestre che i Clinton, ma lo stesso Obama, continuavano ad evocare nei propri interventi. Questo, quindi, è il punto vero di rottura, su cui occorre riflettere, non dimenticando i precedenti di una storia lontana.
Non è la prima volta che la globalizzazione entra in crisi. Lo stesso fenomeno si produsse, in termini ben più drammatici, agli inizi del ‘900. Anche allora la forza della tecnologia aveva cambiato il volto del capitalismo, sorto a Manchester. Non più piccole imprese che si contendevano il mercato, ma la nascita di quel sistema monopolistico, basato sui grandi complessi industriali e finanziari, destinato a fomentare politiche imperialiste. La conquista dei nuovi mercati altro non era che la conseguenza dei limiti storici di quel capitalismo, la cui forza produttiva sarebbe rimasta soffocata dalla ristrettezza del solo mercato interno. Ed ecco allora le politiche di conquista, alla ricerca di nuovi mondi da cui estrarre materie prime – si pensi solo al petrolio – e collocare il surplus in eccesso prodotto in patria.
Queste furono le cause principali che portarono alla Prima e alla Seconda guerra mondiale. Guerre per la conquista di colonie da cui trarre maggiori risorse da utilizzare nella competizione tra le grandi Potenze di allora: la Francia, l’Inghilterra, la Germania, il Giappone, l’Italia, la Russia degli zar ed, alla fine, gli stessi Stati Uniti d’America. Costretti ad intervenire per evitare che nel cuore dei Paesi più sviluppati potesse sorgere una Potenza in grado di offuscare una leadership mondiale, che si andava progressivamente consolidando.
In quegli anni si discusse molto sulla natura di quel processo. Era il capitale finanziario che guidava le danze, emancipandosi dal sottostante retroterra produttivo, secondo la visione di Hilferding? O era, invece, un intreccio più profondo tra grandi gruppi industriali, banche e apparati dello Stato, secondo le teorie di Lenin: l’imperialismo, fase suprema del capitalismo? Quel dibattito teorico produsse ben presto conseguenze politiche ben più significative. Determinò, infatti, la definitiva rottura tra la socialdemocrazia tedesca e il partito comunista guidato da Lenin.
Quel processo aveva una caratteristica diversa rispetto alla “seconda fase” della globalizzazione: quella che stiamo vivendo. I competitor erano solo i grandi Paesi Occidentali, mentre il resto del mondo, con la sola esclusione iniziale della Russia di Lenin e della Cina di Mao, terra di conquista. L’arma culturale utilizzata dalle elite di allora era un esasperato nazionalismo – il posto al sole di Mussolini – per influenzare le rispettive popolazioni. Le quali, tuttavia, erano comunque beneficate. Non a caso Lenin – teorico dell’internazionalismo proletario – rimproverava le “aristocrazie operaie” di essere partecipi, seppure in forma subalterna, alla spartizione del bottino ai danni dei Paesi conquistati.
Non è più questa la caratteristica della “seconda fase” della globalizzazione. All’antica preminenza dell’Occidente si è progressivamente sostituita la crescente presenza delle cosiddette “economie emergenti” – i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) – dalla cui crescita economica e sociale dipende sempre più la marcia complessiva dell’intero Pianeta. Questo significa, pertanto, che i vantaggi della globalizzazione non si sono distribuiti in misura uniforme. Ma hanno privilegiato le aree periferiche del Mondo. Basti pensare alla straordinaria crescita, non solo economica, della Cina o della Corea. Ma più in generale tutto il Far East asiatico ed appunto i Brics.
Una seconda caratteristica è stata la scissione tra la grande finanza e il retroterra produttivo. La maggiore mobilità del capitale ha consentito alle grande istituzioni finanziarie di mietere profitti inverosimili che si sono risolti negli appannaggi miliardari delle nuove elite. Mentre l’economia reale subiva un progressivo “spiazzamento” a causa della concorrenza unfair delle aziende localizzate in quei territori, grazie agli investimenti finanziari di matrice occidentale e non solo. Si è così determinata una grande asimmetria: da un lato società in forte crescita economica e sociale; dall’altro la crisi delle antiche capitali del benessere. Ed ecco allora il risentimento dei looser, ossia dei perdenti. Di quella classe media, che in Europa o negli stessi Stati Uniti, non vede più futuro. L’ingrediente principe della vittoria di Donald Trump.
Il richiamo ad un comune sentimento nazionale per il neo presidente è stato come porre un argine. A differenza del ‘900 non è più l’arma per attaccare i vicini, ma lo strumento per difendere una comunità dalla devastazione di quell’interdipendenza che, nel nuovo millennio, ha cambiato le batterie dell’orologio, facendole girare in senso antiorario. Una suggestione che gli americani hanno immediatamente recepito. Ma anche un’indicazione che non si fermerà sulle sole sponde dell’Atlantico.