La notizia del giorno è più sanitaria che politica. L’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha bisogno di un dentista. Poiché ha promesso, in un videoforum con Repubblica.it, di “sbranare” chi nel suo partito, ma anche fuori, lo accuserà di “tradimento” se voterà no al referendum sulla riforma costituzionale, pur avendola votata in Parlamento, i denti di cui dispone non potranno bastare alle necessità. Egli dovrà quanto meno rinforzarli con qualche impianto, non essendo possibile, credo, aumentarli di numero. Neppure l’imitatore inimitabile Maurizio Crozza potrà aiutarlo con i trucchi e le protesi di scena.
Smanioso di “sbranare” critici ed avversari, lui – poi – che è sembrato per tanti anni un uomo sin troppo pacioso, non si è neppure accorto che nel frattempo, tra una sua intervista e l’altra, tra un impegno e l’altro a correre di qua e di là nelle ultime settimane di questa lunghissima campagna referendaria, nella commissione del Pd formata per la riforma della contestatissima legge elettorale della Camera chiamata Italicum –commissione comprensiva dell’ex presidente del partito Gianni Cuperlo, in rappresentanza delle minoranze- si è trovato un accordo a dir poco clamoroso, viste almeno le posizioni di partenza.
Il progetto del nuovo Italicum è un vero e proprio ribaltamento. Scompare il ballottaggio, sino a qualche settimana fa considerato da Renzi irrinunciabile, o quasi, per poter individuare la sera stessa delle elezioni chi ha vinto e chi ha perduto: qualcosa che egli considerava esportabile in tutto il mondo.
Oltre al ballottaggio, scompare il premio di maggioranza alla lista più votata, che da sola, per avere avuto un voto in più della seconda in classifica, avrebbe potuto intascare il 55 per cento dei seggi parlamentari, magari avendo raccolto anche meno di un terzo dei consensi elettorali. Al suo posto torna il premio di maggioranza alla coalizione. E pazienza se il Pd dovrà rinunciare a quella “vocazione maggioritaria” con la quale era nato nove anni fa unificando i resti del Pci e della Dc. E pazienza anche per l’analogo sogno di vincere tutto il banco da solo coltivato da Beppe Grillo. Che si è abituato con i ballottaggi amministrativi della primavera scorsa a sconfiggere i candidati sindaci del Pd con i voti di una destra, o di quel che fu il centrodestra, ossessionata dall’antirenzismo espressa al meglio da quel gigante politico che si sente il capogruppo forzista della Camera Renato Brunetta.
Ma non è finita. Nel progetto del nuovo Italicum, necessariamente destinato al suo percorso parlamentare dopo il referendum costituzionale del mese prossimo, visto anche che nel frattempo quel poco che resta dell’attività delle Camere dovrà essere assorbito dall’esame improrogabile della legge di stabilità finanziaria, cioè del bilancio dello Stato, scompaiono anche i capilista bloccati e candidabili in più collegi, per cui investiti del diritto di scegliere i subentranti all’atto della cosiddetta opzione del territorio da rappresentare.
Capilista bloccati e candidati di second’ordine eleggibili col vecchio sistema del voto di preferenza, a torto o a ragione tanto bistrattato, affogheranno nei cosiddetti collegi uninominali. Che significano un candidato per ogni partito, o coalizione, per ciascuno delle centinaia di collegi in cui si dividerà il territorio nazionale.
Diciamo la verità, sarà una variante delle liste bloccate, ma più decente, più commestibile, perché l’elettore avrà almeno la possibilità di trovarsi stampato sulla scheda, partito per partito, o coalizione per coalizione, il nome del candidato. Per cui, se gli risulterà troppo indigesto, potrà scegliere il candidato più gradito di un altro partito, o coalizione, o non scegliere nessuno annullando preferibilmente la scheda, perché a depositarla intonsa nell’urna rischia di farla votare con una subdola crocetta da un furbo e malintenzionato scrutatore nell’atto di visionarne e leggerne il contenuto.
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Con simili modifiche in cantiere si stenta a credere che ci possano essere ancora dubbi, nel Pd e altrove, fra quanti avevano condizionato l’approvazione referendaria della riforma costituzionale ad una legge elettorale troppo vantaggiosa per chi avesse vinto le elezioni. Eppure i dubbi vi sono in questa nuova edizione, tutta politica, della celebre commedia, anzi tragicommedia, del grande Eduardo De Filippo chiamata “Natale in casa Cupiello”, che peraltro fa quasi rima col povero Cuperlo. Che ha adesso il difficile, quasi disperato compito di convincere i compagni delle minoranze ad accontentarsi della nuova versione dell’Italicum.
Nell’opera teatrale forse e giustamente più famosa del grande Eduardo, il presepe allestito dal protagonista non piace mai al figlio, che si decide a dire sì, non si sa se per rimorso sincero o per finzione, solo quando il padre agonizza immaginando un cielo affollato di presepi. Ma Bersani, con quella voglia che ha di sbranare chi gli sta intorno, figuratevi se dirà: sì, mi piace.
La voglia invece di dire sì è stata avvertita netta sulle labbra e sul volto di Eugenio Scalfari nel solito salotto televisivo di Lilli Gruber quando questa lo ha incalzato sulla strada del giudizio formalmente ancora “sospeso” del fondatore di Repubblica. Che ha notoriamente condizionato pure lui il voto referendario alla modifica della legge elettorale, dalla quale –è tornato ad avvertire, forse non conoscendo ancora del tutto la notizia dell’accordo o compromesso raggiunto nella commissione del Pd- “dovrà scomparire il ballottaggio” perché troppo favorevole ai grillini, avvertiti da Barpapà come un movimento che non sa se definire “più drammatico o comico”.
Ed è proprio con un grillino, l’ormai mitico deputato Alessandro Di Battista, Dibba per gli amici, che Scalfari si è confrontato nel salotto di Lilli. Lo spettacolo è stato francamente esilarante, tra il giovanotto che parlava parlava e il vecchio Scalfari che se lo guardava sgomento dicendo alla conduttrice: “E’ un parlatore”. E scambiando, con ironia secondo me voluta e non casuale, come effetto cioè di qualche vuoto di memoria, per bicicletta la moto, invece, con la quale il suo interlocutore aveva fatto il giro d’Italia nelle scorse settimane per reclamizzare il no referendario alla riforma costituzionale.
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Due parole infine sulla storia ormai comica del presunto complotto per rinviare il referendum alle calende greche, con vari pretesti: dal terremoto alla pendenza giudiziaria in corso contro il quesito referendario unico, anziché spacchettato, sottoposto dalla Corte di Cassazione agli elettori. Due parole solo per registrare lo scontatissimo “stupore” che il presidente della Repubblica, pur risparmiandosi un comunicato ufficiale, ha fatto opporre dai suoi collaboratori alle voci che gli avevano attribuito un interesse al rinvio.
I sostenitori del complotto sono ora rimasti in compagnia solo del solito Berlusconi, cui si attribuiscono da tempo tutte le parti in commedia, tanto che La Stampa lo dà ancora in trattativa sull’argomento, e di Valerio Onida, il presidente emerito della Corte Costituzionale. Che, pur sostenendo il no alla riforma costituzionale, col suo ricorso contro il quesito unico potrebbe fare il miracolo, con l’aiuto della magistratura ordinaria e costituzionale, di un rinvio: uno spettacolo, appunto, comico.