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Ecco come Silvio Berlusconi e altri Signor No danno una mano al Sì di Matteo Renzi

Il carattere brancaleonesco – dall’arcinota Armata Brancaleone – del fronte referendario del No alla riforma costituzionale di Matteo Renzi era arcinoto dai primordi della lunghissima campagna referendaria che si sta finalmente concludendo. Ad ogni nuovo arrivo in quel fronte cresceva la confusione, su cui tutti, sempre da quelle parti, sorvolavano accontentandosi dei sondaggi, che li davano in costante vantaggio. Solo di recente, dopo il fallimento planetario dei sondaggi con la vittoria di Donald Trump e la sconfitta di Hillary Clinton nella corsa alla Casa Bianca, qualcuno ha cominciato a fare qualche riflessione, sempre da quelle parti, ma tenendosele per sé per non diffondere pessimismo, al massimo facendo qualche scongiuro.

Adesso si sta verificando qualcosa di ancora più nuovo, che forse sta sorprendendo persino Renzi, che potrebbe esserne il beneficiario. Si sta verificando una gara, non si sa se più inconsapevole o comica, nel fronte del No per dare una mano al presidente del Consiglio. Al quale l’aiuto maggiore è stato fornito nelle ultime ore, fra un microfono radiofonico e l’altro, dal sempre più imprevedibile Silvio Berlusconi.

Forse pentito, chissà, di avere troppo bruscamente sgambettato l’amico Stefano Parisi, del quale qualcuno si sarà deciso a spiegargli che gli attacchi a Matteo Salvini dalla tribuna di Padova erano una risposta agli attacchi dello stesso Salvini lanciati dalla tribuna di Firenze a lui, Berlusconi, il povero stralunato presidente di Forza Italia ha cercato di mettere una pezza. Che però gli è riuscita peggiore del buco, come si dice in gergo popolare, perché ha prodotto una confusione ancora maggiore nel fronte referendario dove egli risulta ancora schierato.

E’ accaduto, in particolare, che mentre il segretario leghista si godeva lo spettacolo di Parisi atterrato, Berlusconi è tornato a bocciare anche le sue smodate ambizioni dicendo che sulla scena politica italiana è rimasto ormai solo un leader. Che è – sentite, sentite – Matteo Renzi: il famoso “Royal baby” annunciato e descritto con devozione da Giuliano Ferrara come il vero erede di Berlusconi. La notizia avrà fatto piacere al fondatore del Foglio, che sta trascorrendo questa parte finale della campagna referendaria italiana a New York, forse per seguirla con maggiore distacco, oltre che per osservare più da vicino il fenomeno Trump. Che giustamente lo intriga moltissimo.

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Assodato che, anche a causa dell’età e della permanente incandidabilità di cui Berlusconi si sente vittima, Renzi è l’unico leader sulla piazza, e che l’Italia ha bisogno di essere governata, come ogni altro paese che si rispetti, specie fra i marosi di una crisi economica che non è per niente finita, resta da capire perché mai lo stesso Berlusconi continui a fare propaganda referendaria per il No, accanto a Beppe Grillo, che lui di notte, sognandolo, scambia per Hitler, ad Antonio Ingroia, a Massimo D’Alema, a Pier Luigi Bersani, che dopo le elezioni del 2013 preferì farsi togliere il mandato di fare il governo piuttosto che trattare con lui le larghe intese raccomandategli dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e ad altri ancora che di certo non appartengono alla cerchia degli estimatori dell’ex Cavaliere.

Evidentemente anche Berlusconi, come Bersani in una intervista fresca di stampa sul Corriere della Sera in cui teorizza l’opportunità che Renzi rimanga a Palazzo Chigi pure nell’ipotesi di una sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale, rimane sul fronte del No per inerzia, per pigrizia mentale, solo perché – ha detto appunto l’ex segretario del Pd al più diffuso giornale italiano – “il dentifricio nel tubetto non si può rimettere”.

Vi verrà forse da ridere, o anche da piangere, ma questo ormai è il livello al quale è sceso il dibattito politico italiano, e non solo quello referendario. Un dibattito contrassegnato solo dalla casualità, dal capriccio, dal dispetto, non certo dalla logica. E poi ci lamentiamo che, crisi o non crisi, economica o politica, chi fa soldi con le speculazioni di borsa gioca a livello internazionale con i titoli del nostro ingente debito pubblico come se fossero birilli. Che fiducia pensate si possa avere nell’Italia quando la cronaca politica offre della nostra presunta classe dirigente questo spettacolo? Ovviamente, nessuna.

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A Bersani – sempre lui – piace da morire, dopo quella del giaguaro da smacchiare, di cui abusò inutilmente nella campagna elettorale di tre anni fa perdendo tutto, anche la segreteria del partito, l’immagine della mucca salita per le scale della sede nazionale del Pd, al Nazareno, fra l’indifferenza generale, e rimasta ancora lì, quietamente, a seminare di escrementi – e che escrementi – corridoi, stanze e quant’altro.

Ora l’uomo di Bettola si è deciso a indicare finalmente il colore di questa benedetta o maledetta mucca. E’ una mucca nera, per niente pentastellata, come qualcuno forse l’aveva immaginata pensando che i pericoli maggiori per il Pd venissero dai voti dei grillini, specie dopo i ballotaggi amministrativi della scorsa primavera, a cominciare da quelli di Roma e di Torino. No, no. La mucca è nera perché, a parte il fenomeno americano di Trump, che ha naturalmente impressionato anche Bersani, al povero, sprovveduto Renzi sarebbe sfuggito un evento italiano che ha preceduto quello degli Stati Uniti: la conquista del Comune di Monfalcone, meno di trentamila abitanti, da parte del centrodestra raccoltosi attorno ad una candidata sindaca leghista, Anna Maria Cisint, dopo 25 anni di ininterrotta amministrazione di sinistra.

Pensate, Renzi a furia di guardare a Bruxelles, di andare e venire dalla Casa Bianca ancora di Barack Obama, di correre da una parte all’altra dello stivale per sostenere la sua riforma costituzionale, si è lasciato scappare quello che maturava ed è infine accaduto a Monfalcone il 6 novembre scorso. Che disastro, ma non per Renzi, bensì per la sinistra ridotta a questo tipo di discorsi e di analisi cosiddetta politica.


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