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Eni, Saipem e la diatriba fra petrolio, gas e carbone

gas

In principio era… Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio). Era l’intuizione di Jean Monnet e di Robert Schuman, con lo scopo di mettere in comune le produzioni di carbone e acciaio in un’Europa di sei paesi: Belgio, Francia, Germania Occidentale, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. Superare le guerre europee. Creare la pace duratura. La Ceca è stata la mamma dell’Unione europea del 1992 ad oggi. Ma adesso come stanno le due materie prime che forgiarono il disegno europeo? Sono di gran moda… E’ arrivato The Donald con il tema vero che si chiama lavoro, industria, delocalizzazione, dazi, Nafta, Ttip, ecc. e se ne accorgono tutti che l’economia manifatturiera è energia e acciaio. “Ma mi faccia il piacere”, direbbe il nostro amato Totò.

Partiamo dall’energia, e quindi dal carbone. Il carbone è il nemico del nuovo paradigma industriale ed energetico. Un paradigma pronto e dove l’Italia giocherebbe un ruolo da protagonista. Ha tutto per esserlo con Eni, Saipem, Fincantieri e l’indotto d’avanguardia nell’impiantistica industriale. Ci sono però forze conservatrici. Vero per The Donald, vero per la Signora Merkel stessa! Il gas naturale infatti, a parità di energia elettrica prodotta, genera circa la metà delle emissioni prodotte dal carbone. In particolare Cop21 auspica che entro il 2030 l’energia elettrica prodotta nel mondo da fonti rinnovabili possa triplicare rispetto ai valori attuali e che quella prodotta da gas naturale possa raddoppiare. L’obiettivo più ambizioso è quello di cessare la produzione di energia elettrica da carbone entro il 2040. A tutt’oggi il carbone copre ancora oltre il 30 per cento del fabbisogno di energia elettrica nel mondo e causa circa il 70 per cento delle emissioni. In Europa si vive la situazione più paradossale, perché nonostante sia il continente più a cultura ambientalista, e negli ultimi anni abbia speso enormi risorse per sostenere lo sviluppo delle energie rinnovabili, ha anche aumentato sensibilmente la produzione di energia elettrica da carbone, di fatto annullando i benefici prodotti dalle fonti rinnovabili in termini di emissioni.

L’Europa resta quindi a metà strada tra carbone e mix gas-rinnovabili e questo è un solido argomento da dire alla Signora Merkel e ai paesi dell’Est su un cambio strutturale delle politiche europee.

Passiamo all’acciaio. Sempre di moda in tutto il mondo. Recentemente oltre 5 mila lavoratori della siderurgia di tutta Europa hanno manifestato a Bruxelles in difesa dell’industria dell’acciaio. E subito dopo la Commissione dell’Ue ha proposto nuovi metodi anti-dumping per contrastare l’import dalla Cina. Tutto bene? No, mi basta guardare al mio osservatorio provinciale per essere preoccupato. I coils che arrivano da Taranto sul porto di Ravenna vengono consumati per oltre il 75 per cento da aziende della provincia di Ravenna, il restante va in Emilia (Padana Tubi è il secondo produttore di tubi in Italia). La ricaduta occupazionale nel laborioso Nord d’Italia della manifattura è stimabile in migliaia di persone. E posso sbagliarmi ma per difetto. Quindi? Occorre fare una ricostruzione realistica. Occorrono informazioni.

Partiamo da qualche buona notizia. Sono cambiati un po’ gli scenari su Ilva. Due cordate si sfidano. La cordata Arcelor/Marcegaglia da una parte e la cordata Arvedi-Delvecchio-Cdp dall’altra (peraltro irrobustita con l’imminente ingresso di mr. Jindal owner del principale gruppo siderurgico indiano), il rilancio di Ilva sembra più vicino. In questi giorni la commissione di esperti nominata dal ministero dell’Ambiente dovrebbe pronunciarsi sulla bontà dei due piani ambientali proposti dai due contendenti. Poi partirà la trattativa finale che non si prevede chiudersi prima di giugno.

Nel frattempo – qui torna a bomba la decisione europea – i dazi contro la Cina e l’avvio delle indagini anti dumping contro altri 5 paesi (Russia, Ucraina, Iran, Serbia, Brasile) i prezzi sono schizzati alle stelle (+ 70 per cento in un anno) e le acciaierie sono tornate a fare utili importanti (e anche Ilva ha quasi smesso di perdere fiumi di danaro). Tutti felici? Nel breve forse sì. Nel medio porterei l’attenzione su un articolo datato 2/9/2016 che rappresentava la decisione di Caterpillar di chiudere il plant principale in Belgio lasciando a casa oltre 2000 persone e delocalizzando parte della produzione fuori dall’Ue.

Perché? Il costo dell’acciaio in un trattore per l’agricoltura rappresenta fino al 30 per cento del valore. Quindi se in Far East trovo la materia prima a prezzi più bassi che in Europa, potenzialmente drogati dalla chiusura delle frontiere, perché devo continuare a mantenere un plant nel vecchio continente? Il ragionamento si può fare guardando altri paesi non necessariamente del Far East come Messico, Argentina, Turchia, ecc. Chiudere le frontiere, creare un mercato protetto della materia prima e lasciare aperto il commercio di semi prodotti o prodotti finiti significa volere la morte dell’industria metalmeccanica europea nel medio termine. In Europa si consumavano 185 milioni di ton di acciaio nel 2007, oggi in lentissima ripresa 143. E ricordiamolo, l’Italia è una “miniera” d’oro di migliaia di aziende manifatturiere che fanno cosa se non produrre “cose” con semi prodotti o prodotti finiti con grande vocazione all’esportazione? Servono i dazi o una politica industriale europea? I buoi sono già scappati… Tutto questo per quattro potentissimi produttori d’acciaio europei. Allora non scopriamo nulla.

Il problema non è un’Europa dell’austerity, o meglio non solo un’Europa dell’austerity, ma un’Europa che privilegia le rendite di posizioni non proponibili. “Ferro azzurro ama Anacot acciaio” perché come ricordava il mito Gordon Gekko l’informazione è la commodity sempre più preziosa.



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