L’Isis si trova in difficoltà sia in Iraq che in Siria. Non scomparirà, dato il suo radicamento nell’escatologia apocalittica, in cui credono i gruppi più radicali islamici.
A Mosul, la composita coalizione che lo combatte, è giunta alle periferie della città, ormai quasi completamente circondata. I 3-5.000 miliziani che vi sono asserragliati si battono con tenacia. La coalizione anti-Isis sta adottando una cauta strategia di logoramento, con un attacco concentrico lungo quattro principali direzioni, da Nord a Sud della città. Non può permettersi insuccessi neppure parziali, che darebbero prevalenza a una sua componente sulle altre. Sfrutta la sua superiorità numerica e la sua maggiore potenza di fuoco. Il rapporto di forze non dà all’Isis alcuna possibilità di sconfiggerla. Con la sua difesa a oltranza, il Califfato tende a causare alla coalizione perdite elevate, verosimilmente nella speranza che le contraddizioni e le tensioni esistenti al suo interno la facciano implodere. Ciascuna delle sue componenti – l’esercito governativo di Baghdad e le milizie sciite, curde e sunniti – nonché i loro sponsors esterni – Iran, Turchia e blocco saudita, ma anche Russia e Stati Uniti – cercano di crearsi le condizioni più favorevoli per il dopo-Mosul, impadronendosi della maggiore estensione possibile della città e, fuori di essa, dei più ricchi giacimenti petroliferi.
Anche in Siria l’Isis non ha speranza di vittoria né di resistenza prolungata. L’attacco a Raqqa è però ancora in fase preparatoria. La situazione è diversa da quella dell’Iraq. La diversità potrà accrescersi. In Iraq, il mutamento di politica americana conseguente all’elezione di Donald Trump non influirà se non marginalmente sulle operazioni a Mosul. Avrà un impatto solo nella fase successiva, nella quale verranno definiti i rapporti fra le varie realtà etniche e confessionali, il grado di autonomia dei curdi e l’influenza della Turchia. In Siria, invece, le modifiche che potrebbero subire i rapporti degli Usa con la Russia, l’Iran e anche la Turchia, influiranno direttamente sulla strategia adottata per la conquista di Raqqa. L’apertura fatta da Trump a Putin, legittima la vittoria di Assad nella Siria che conta: quella occidentale. Subito dopo il loro colloquio telefonico i bombardamenti di Aleppo si sono intensificati. Forse Putin vuole ottenere un successo definitivo prima che Trump assuma i poteri alla Casa Bianca. Da buon giocatore di scacchi, sa che Trump potrebbe perdere la pazienza e, a sua volta, fare qualche “scherzo” alla Russia.
Il comune interesse all’eliminazione dello Stato islamico ha per ora evitato scontri troppo aperti fra gli Usa e la Russia. Ma Washington non può permettersi di “regalare” a Mosca una vittoria completa. Trump esigerà contropartite, all’accettazione di una permanenza di Assad al potere e alla cessazione degli aiuti agli insorti meno radicali. Che cosa intenda chiedere, non si sa.
Dopo l’eliminazione della natura di proto-Stato che ha il Califfato, le cose muteranno. Stati Uniti e Russia potrebbero accordarsi sul futuro della Siria. Il mantenimento dell’unità del paese, essenziale per la stabilizzazione anche dell’Iraq, non può però essere data per scontata. Troppo sangue è stato versato. Non vedo come possa essere data risposta all’ambizione dei curdi all’autonomia, alla volontà dei sunniti di non essere dominati dagli sciiti e alla tentazione di questi ultimi di riprendere l’intero potere.
Malgrado la stanchezza della popolazione, soluzioni di compromesso fra i tre gruppi principali sia dell’Iraq che della Siria sembrano impossibile. Nessun gruppo è disposto a rinunciare a una fetta del potere. La lotta continuerà sotto altre forme. Verosimilmente l’Isis si trasformerà in una rete terroristica, divenendo simile ad al-Qaeda. Continuerà a essere sostenuto dall’Arabia Saudita e dagli altri governi sunniti. Sarà per essi uno strumento per indebolire i governi di Damasco e di Baghdad, alleati di Teheran, in tutta la “Mezzaluna Sciita”, che si estende dall’Afghanistan al Mediterraneo orientale.