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Intesa Sanpaolo, Unicredit, Carige e il giallo sulle quote di Banca d’Italia

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Non se ne sta parlando molto ma per la fine dell’anno è fissata una scadenza non di poco conto nel mondo finanziario: gli azionisti della Banca d’Italia sopra al 3% del capitale dovranno riportarsi a questa soglia vendendo la parte eccedente della partecipazione oppure subendone il congelamento in termini di diritti di voto e dividendi.

CHI SONO GLI AZIONISTI SOPRA IL 3%

Di chi si tratta è presto detto: tanto per incominciare Intesa Sanpaolo e Unicredit, le due principali banche italiane, con quote dell’authority di via Nazionale rispettivamente del 35% e di quasi il 18 per cento. Sono partecipazioni di gran lunga sopra il limite del 3% fissato per la fine dell’anno. Alle spalle delle prime due banche italiane, parecchio distanziate, ci sono le Assicurazioni Generali e la genovese Carige, con quote rispettivamente di poco più del 5% e del 4 per cento. Come mai questi soci devono portarsi al 3%? A stabilirlo è la legge del 2014, frutto del lavoro e delle mediazioni dell’ex premier Enrico Letta (di lì a poco sostituito da Matteo Renzi), che aveva rivalutato il patrimonio di Palazzo di Koch portandolo da 156 mila euro a 7,5 miliardi, sollevando un vespaio di polemiche.

LA LEGGE DEL 2014

“Si sta facendo l’ennesimo regalo alle banche”, obiettarono i più critici che si riferivano evidentemente al fatto che i maggiori soci di Bankitalia sono istituti di credito e che quindi, aumentando il valore delle partecipazioni nelle loro mani, si stava facendo loro un grande favore. “Nessun regalo”, replicava invece chi sosteneva che la rivalutazione delle quote fosse solo sulla carta, virtuale insomma. Tanto più che la rivalutazione, essendo stata decisa così, “a tavolino”, non comportava alcun esborso da parte di chicchessia, tantomeno da parte dello Stato. Il problema, tuttavia, si pone nel momento in cui queste partecipazioni vengono vendute. Tra gli obiettivi della legge del 2014 c’era infatti proprio quello di creare un mercato delle quote di Bankitalia. Un vero e proprio mercato non è mai nato, ma di certo qualcosa Intesa Sanpaolo e Unicredit, negli ultimi due anni, hanno portato a casa, se si considera che nel 2014 insieme assemblavano oltre il 65% di Bankitalia, contro il 53% circa odierno. Va, inoltre, sottolineato che le banche, a fronte di quella rivalutazione, pagarono tasse salate, che furono decise dal governo di Matteo Renzi e che, si disse, servirono per finanziare la cancellazione della tassa sugli immobili Imu.

LA POLEMICA DI OGGI

Proprio poiché nel giro di due anni le due maggiori banche italiane hanno venduto appena poco più del 10% di Palazzo Koch, è difficile pensare che da qui alla fine dell’anno riescano a scendere al 3% a testa. Messe tutte insieme, e quindi considerando anche quelle di Generali e Carige, come scrive il Messaggero del 22 ottobre, le quote oltre il limite superano abbondantemente il 40%, per un valore di quasi 3,4 miliardi. Una cifra che, è il timore del senatore del Gruppo misto, Giuseppe Vacciano, potrebbe anche essere sborsata dalla Banca d’Italia stessa. Sì, perché la legge del 2014 prevede altresì che, in mancanza di altri compratori, Bankitalia rilevi, sia pure in via transitoria, le quote eccedenti il 3 per cento.

Non si tratta di un obbligo per Palazzo Koch ma è un’eventualità da contemplare. A detta del senatore, si tratterebbe di “una sorta di finanziamento indiretto se Bankitalia deciderà di riacquistare oltre il 40% delle sue quote, percentuale ben diversa da quanto l’istituto stesso prospettava nel 2014”. Se Palazzo Koch comprasse dai suoi soci le quote, non solo diventerebbe azionista di se stesso, ma rischierebbe di concretizzarsi quel tanto temuto regalo alle banche paventato nel 2014. Regalo che, oggi a differenza del 2014, sarebbe a fronte, per esempio, degli impegni profusi da Intesa e Unicredit nell’ambito del salvataggio delle quattro banche Etruria, Marche, Carife e Carichieti e del finanziamento del fondo Atlante. Secondo Massimo Mucchetti, che lo scrive nel proprio blog nel maggio del 2015 , se “la Banca d’Italia rileva le quote invendute e se le tiene per ricollocarle, sarebbe proprio quell’acquisto di azioni proprie che il Governo ha sempre negato fosse la conclusione del percorso”. Per Mucchetti si tratterebbe di “una conclusione imbarazzante per due ragioni: a) allora era proprio vero che la rivalutazione monetaria delle quote serviva per sostenere due banche e, attraverso il prelievo fiscale connesso, per pagare la cancellazione dell’Imu, avvalorando il sospetto di un aiuto di Stato; b) rilevando le quote, la Banca d’Italia si troverebbe in posizione di autocontrollo, e dunque se ne dovrebbe rivedere la governance”.

LE ALTRE POSSIBILITÀ

In caso di mancata vendita, la parte delle quote eccedente il 3% sarà sterilizzata del diritto di voto e del dividendo. Se si considera che sul bilancio del 2015 Bankitalia ha distribuito agli azionisti una cedola complessiva di 340 milioni (119 dei quali sono andati solo a Intesa), si capisce perché le banche non saranno per nulla felici del dividendo congelato, perciò si può ipotizzare che faranno il possibile per scongiurare questa possibilità. Secondo il Messaggero esiste anche una terza eventualità: la proroga per legge dello status quo, consentendo ai soci di percepire il dividendo su tutta la partecipazione e in attesa di condizioni di mercato migliori, che consentano davvero di sviluppare quel mercato delle quote di Bankitalia che al momento ancora non si è visto.


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