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Quale sarà la visione di Donald Trump su Isis, Iraq, Siria e Libia

Una delle distinzioni tra il vincitore delle presidenziali americane, Donald Trump, e la sua rivale perdente, Hillary Clinton, sta nella lettura degli Affari esteri. Per il momento la politica estera del neo-vincitore non è troppo delineata, mentre quella di Clinton era ricostruibile come una sorta di continuità, più operativa magari, della legacy di Barack Obama.

LA LIBIA

Un esempio: Daniele Raineri scrive sul Foglio che una fonte, evidentemente vicina la governo libico filo-Onu guidato da Fayez Serraj, ha rivelato che il Consiglio presidenziale, che rappresenta – ancora, dopo mesi – l’esecutivo, aveva avuto contatti con lo staff Esteri di Clinton (esempio nell’esempio: da chi era composto lo staff esteri di Trump durante la campagna? Mai svelato). “Il messaggio di Clinton a Serraj era: non indietreggiare, non scendere a compromessi, perché quando sarò presidente l’America sarà al tuo fianco, eventualmente anche con la sua forza militare, proprio come è stata al tuo fianco durante l’offensiva ancora non conclusa contro lo Stato islamico a Sirte”, spiega il Foglio. Sul futuro non c’è chiarezza, anche perché in campagna elettorale Trump non ha mai affrontato il dossier libico, dove però gli Stati Uniti sono coinvolti in una campagna aerea, che ormai è diventata di ampia portata, per scacciare i baghdadisti da Sirte. Di più, perché forse la Libia potrebbe trasformarsi in futuro un terreno di caccia per i leader del Califfato, un fall-back per i seguaci indicato anche nell’ultimo audio da Abu Bakr al Baghdadi, con diversi combattenti probabilmente già dispersi nella fuga da Sirte (che Baghdadi ha indicato come esempio di resistenza per i mujaheddin), e gli Stati Uniti che stanno rafforzando la presenza nella fascia nordafricana ritenuta una delle aree più a rischio per l’evoluzione di fenomeni jihadisti e terroristici. Jason Burke, esperto di questioni mediorientali, scrive su Repubblica addirittura che a Trump “l’uomo forte dei militari, il generale Khalifa Haftar, sembra essergli più congeniale”. Questo ripercorre una linea di consensi dietro al generale cirenaico che sta bloccando il processo di pacificazione unitario, che parte dall’Egitto di Abdel Fatah al Sisi – un “leader forte” apprezzato dal repubblicano –  e arriva fino in Russia (dove un altro leader forte, Vladimir Putin, è stato il primo a congratularsi con Trump per la vittoria; Sisi è stato il primo tra gli arabi). Inutile aggiungere che se Trump dovesse mollare Serraj, che nel tempo s’è oggettivamente indebolito anche perché alcuni Paesi (come la Francia) hanno mantenuto sempre una doppia opzione ad Est, la linea americana potrebbe stravolgere l’intero atteggiamento occidentale sul dossier. (E l’Italia che ha scommesso su Serraj?). Fino a questo momento è stata proprio la posizione forte dell’America – che ha forzato l’insediamento a Tripoli di Serraj – a tenere compatto il fronte occidentale e mantenere vivo il governo progettato dall’Onu. Anche secondo Claudia Gazzini, senior analyst all’International Crisis Group, che ha analizzato la situazione in Libia (di cui si occupa nelle sue ricerche) per la Fondazione Oasis è su una posizione analoga: “Trump al potere potrebbe rinforzare la posizione del generale Khalifa Haftar e dei gruppi pro-Egitto e pro-Russia che esistono nell’Est del Paese”. “È molto significativo che dal 31 ottobre non ci siano più stati raid aerei americani – scrive Gazzini –, e questo non significa che la guerra sia finita. In termini di politica americana vedremo il vuoto per i prossimi tre mesi. Questo per l’Italia significherà un periodo di incertezza”.

LA SIRIA

Il dossier siriano è sul tavolo dello Studio Ovale ormai da anni, senza risoluzione. L’approccio pragmatico e pseudo-isolazionista con cui nei primi anni Obama ha trattato l’affare è stato demolito dall’affermarsi dello Stato islamico, ma Washington ha tenuto sempre al limite minimo il proprio coinvolgimento. Gli americani combattono l’IS, che è una guerra parallela che si svolge sullo stesso territorio di quella civile, dove gli Stati Uniti si trovano impegnati in un flebile e indeciso sostegno nei confronti di alcuni gruppi ribelli. Se con Obama sono finiti i tempi del regime change, con Trump potrebbe esserci addirittura un’apertura a Bashar el Assad, considerato nella pragmatica un leader forte che combatte i terroristi, una linea simile a quella sostenuta dalla Russia, esplicitata durante il terzo dibattito presidenziale, quando il repubblicano in mondovisione ha fatto una digressione sull’argomento, dicendo: “La Siria sta combattendo l’Isis. Non mi piace Assad ma Assad sta uccidendo l’Isis. La Russia sta uccidendo l’Isis. L’Iran sta uccidendo l’Isis. E questo per via della nostra debole politica estera”. Nella costruzione di Trump, analoga a quella di Mosca, i ribelli sono tutti terroristi, Isis o al Qaeda. In quello stesso dibattito, Clinton aveva invece proposto la creazione di una safe zone no-fly in Siria, dove i siriani avrebbero potuto rifugiarsi al sicuro dai bombardamenti del regime – che in questi giorni pare si stia nuovamente preparando per un attacco su Aleppo. Implicito nella creazione di questa sacca sicura, la possibilità per i siriani combattenti di usufruire di uno spazio in cui recuperare forze e rifornimento: tutto questo sarebbe stato possibile se Clinton avesse vinto, in quanto la democratica ha avuto dai tempi in cui guidava il Dipartimento di Stato una linea più aperta ad aiutare militarmente le opposizioni. Ma le cose sono andare diversamente. La posizione di Trump sarà probabilmente mirata a un minor coinvolgimento, in linea con l’isolazionismo “America First”, e questo potrebbe significare che la Russia pro-regime avrà in futuro maggior spazio di movimento in Siria. “La vittoria di Trump è uno schiaffo a tutti quelli che esaltano la democrazia” ha commentato il portavoce della Jabhat Fateh al Sham, ex al Nusra, uno dei gruppi combattenti integralisti più forti e controversi (a causa della sua vecchia affiliazione ad al Qaeda) tra quelli che si oppongono al regime.

L’IRAQ

Un ruolo cruciale su tutti i dossier dell’area MENA (Middle East and North Africa) lo giocheranno le relazioni che Trump creerà con gli attori regionali, sia alleati che non. Per esempio, come si porrà in confronto a Turchia e Arabia Saudita? Uno scorcio: Michael Flynn, generale tra i pochi consiglieri conosciuti di Trump (tema: Difesa; sottotema: Esteri), ha già chiarito che dovranno essere gli alleati arabi a prendersi sulle spalle il giogo della lotta all’IS. E ancora, che tipo di ruolo Trump farà svolgere all’Iran? È proprio Teheran a spostare l’asse sull’Iraq. L’influenza della Repubblica islamica sulla situazione politica irachena è enorme: le milizie/partito sciite, mosse direttamente dai più influenti ayatollah, sono parte integrante della battaglia allo Stato islamico, ma soprattutto sono forze che governano nel sud sciita e a Baghdad, al punto che si pensa che l’Hashad al Shaabi, il raggruppamento ombrello sotto cui questi gruppi paramilitari ideologici si sono mobilitati, possa diventare in futuro una sorta di macro-entità politico-amministrativa assimilabile agli Hezbollah libanesi, che sono la maggioranza che ha sostenuto il nuovo presidente a Beirut. L’Iraq è importante perché è il centro della battaglia allo Stato islamico, ora al culmine con l’offensiva su Mosul, la capitale del Califfato. Difficile mollarlo per Trump, perché rappresenterebbe disinteressarsi delle sorti della guerra all’IS.

L’ISIS E AL QAEDA

Il predicatore Abdallah al Muhaysini, riferimento ideologico qaedista molto attivo su Twitter, ha commentato che la vittoria di Trump potrebbe essere l’inizio di una nuova frammentazione degli Stati Uniti, un dimostrazione dell’attitudine razzista degli americani nei confronti dei musulmani. Il giorno dopo la vittoria, dal sito di Trump era scomparso il passaggio in cui si parlava di legiferare il divieto ai musulmani di entrare negli Stati Uniti, uno degli argomenti più controversi di tutta la sua campagna elettorale: dopo che alcuni media avevano sottolineato “il taglio”, lo staff del repubblicano ha spiegato che s’era trattato solo di un inconveniente tecnico e che tutto era tornato come prima. Se Trump non cambierà la propria retorica violentemente basica contro il mondo musulmano, il rischio è che la sua elezione possa essere benzina sul fuoco della radicalizzazione, un bene per i gruppi combattenti che campano di proseliti e propaganda: lo stesso Muhaysini, considerato uno dei leader qaedisti in Siria, ha scritto in un tweet che “la guerra degli americani non è contro i terroristi (i mujaheddin)”, ma contro i sunniti, di cui i mujaheddin sono la linea difensiva. “Per essere chiari, avrebbero trovato cose negative da dire anche avesse vinto a la retorica di Trump gioca per la loro visione del mondo” ha ricordato su Twitter Rukmini Callimachi, esperta di terrorismo islamico del New York Times: il messaggio che esce dalle reazioni dei gruppi jihadisti è che i musulmani – sunniti – non si trovano al sicuro in Occidente, la richiesta è unirsi al jihad. Toni identici nei commenti degli account affiliati all’Isis.

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