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Come cambiano gli ammortizzatori sociali con il Jobs Act

La legge delega n. 183/2014 (conosciuta con il nome di Jobs act) ha tracciato i principi e i criteri direttivi (ai sensi di quanto previsto dall’articolo 76 della Costituzione) per un’ampia rivisitazione della materia dei c.d. ammortizzatori sociali ovvero di quelle misure di sostegno del reddito (di natura previdenziale e/o assistenziale) predisposte dal legislatore quando – nel corso della prestazione lavorativa o  a conclusione della stessa – venga a mancare quella retribuzione che consente al prestatore d’opera di provvedere a se stesso e alla propria famiglia.

Del resto, anche la Costituzione, all’articolo 38, comma 2, inserisce la disoccupazione involontaria tra gli eventi a fronte dei quali i lavoratori hanno diritto ‘’che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita’’. L’elenco indicato non è tassativo, tanto che, da tempo, si è affermata e consolidata una legislazione di sostegno del reddito anche nei casi in cui, in presenza di una causa di sospensione ‘’tipizzata’’  della prestazione, non ha corso la normale remunerazione da parte del datore.

Diverse sono le cause di sospensione per le quali è predisposta una forma di tutela assicurativa, previdenziale e/o contrattuale. Nella loro eterogeneità  la dottrina ha classificato tali cause secondo due grandi ripartizioni: a) sospensioni  attinenti  alla sfera di interessi del lavoratore (malattia, infortunio, gravidanza e puerperio, congedi parentali, distacco, aspettativa e permessi sindacali, ecc.); b) sospensioni dipendenti dall’impresa in ragione di specifiche esigenze organizzative e produttive (c.d. cause integrabili).

La circostanza che il rapporto resti sospeso anche in caso di non erogazione delle prestazioni costituisce una peculiarità del diritto del lavoro, finalizzata, appunto, alla conservazione dell’occupazione e del reddito, diversamente da quanto è previsto, in generale nei contratti di scambio. L’articolo 1256 c.c., infatti, prevede che l’obbligazione si estingua quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione divenga impossibile.

Nel caso in cui l’impossibilità sia solo temporanea il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell’adempimento fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non possa più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non abbia interesse a conseguirla. È sufficiente trasferire, sia pure in via ipotetica, questa regola generale in materia di obbligazioni al rapporto di lavoro per rendersi conto, in via pratica, prima ancora che sul piano del diritto, quali conseguenze deriverebbero all’esigenza primaria di conservare una condizione di lavoro e di reddito. Inadimplenti non est adimplendum:  è questo il principio generale dei contratti a prestazioni corrispettive; la sospensione dell’obbligazione di una delle parti del rapporto giuridico comporta la sospensione della controprestazione.

Nel diritto del lavoro sono in vigore regole differenti che prevedono la continuità dell’obbligo retributivo come deroga al principio di carattere generale, secondo quanto stabilito dalle leggi e/o dalla contrattazione collettiva nei casi (secondo la dottrina prevalente, tassativi) ivi contemplati. Le prestazioni riconducibili alla definizione di ‘’ammortizzatori sociali’’ appartengono al novero delle sospensioni riferite alle imprese e, in generale, sono garantite attraverso una copertura di carattere previdenziale e/o assistenziale. Basti pensare che, secondo il diritto comune dei contratti, quando l’impresa si trova a dover ridurre o sospendere la produzione, il datore di lavoro potrebbe invocare l’impossibilità sopravvenuta (probatio diabolica!) a lui non imputabile. E ritenere quindi (o meglio sostenere la possibilità) di essere esonerato dall’obbligo retributivo.

Ma è del tutto evidente che il rapporto si incamminerebbe lungo un percorso denso di insidie e privo di sbocchi. Su chi graverebbero, altrimenti, le responsabilità della impossibilità sopravvenuta? Sulla congiuntura economica? Sugli andamenti del mercato (magari quando altre imprese concorrenti sono in gradi di proseguire nella normale attività produttiva)? Sulle scelte sbagliate dell’impresa ? Si aprirebbe un contenzioso senza capo né coda, più teorico che pratico, giacché l’impresa avrebbe comunque l’opzione di intraprendere altre vie tra cui quella di  aprire una procedura di licenziamento collettivo (non sindacabile in giudizio rispetto alle sue motivazioni, in quanto rientranti nella salvaguardia del principio della libertà d’impresa). E quindi il perseguimento di una presunta responsabilità  del datore di lavoro porterebbe, alla fine, a soluzioni per niente garantite per il lavoratore (che in teoria sarebbe il creditore della controprestazione).

Ecco, allora, le finalità a cui è rivolto l’istituto della Cassa integrazione guadagni (CIG): consentire alle imprese di effettuare delle sospensioni e delle riorganizzazioni dell’attività economica, salvaguardando, nel contempo, l’occupazione e il reddito dei lavoratori in vista ed in attesa di una ripresa dell’attività stessa, nel momento in cui se ne ripresenteranno le condizioni.


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