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Cosa si bisbiglia nel Pd su Matteo Renzi dopo il trionfo di Donald Trump

Matteo Renzi

Per darvi un’idea del livello livoroso al quale è arrivato il clima politico in Italia vi racconto quello che ho sentito dire di Matteo Renzi nei corridoi di Montecitorio la mattina della vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane.

Due esponenti del Pd, di cui non posso farvi i nomi per il rispetto che si deve alle istituzioni quando si frequentano da ospiti, e non da attori, che hanno il diritto alla privacy se parlano fra di loro convinti di non essere sentiti da altri che casualmente entrano nella loro area di ascolto, discutevano se fosse più menagramo il presidente del Consiglio italiano, e segretario del loro partito, o il presidente uscente degli Stati Uniti. Era, anzi è l’ora quindi degli scongiuri.

A carico di Matteo Renzi venivano indicati, in un ordine più o meno di tempo, gli auguri all’allora primo ministro inglese David Cameron per il referendum sulla Brexit, i terremoti estivi nell’Italia centrale e quelli successivi d’autunno, la cena recente con Barak Obama e il tifo per l’elezione della candidata sostenuta dallo stesso Obama: Hillary Clinton. Che peggio non poteva uscire dalle urne nel tentativo di tornare alla Casa Bianca come presidente, dopo gli otto anni trascorsi come moglie di un altro presidente, per non parlare delle puntate fattevi come ospite quando era segretaria di Stato all’importantissimo dipartimento degli Affari esteri.

A carico di Obama si citavano le stesse circostanze addebitate a Renzi, eccetto i terremoti: cioè il sostegno a Cameron nel referendum sulla Brexit e la cena alla Casa Bianca col presidente del Consiglio italiano pochi giorni prima dell’inutile, se non controproducente intervento finale nella campagna elettorale per la Clinton.

Di più non sono riuscito ad ascoltare dell’elevatissimo confronto fra i due piddini essendo uscito dall’area d’ascolto e non avendo voluto ricorrere ai soliti furbeschi tentativi di rimanervi, come fermarmi fingendo di riallacciarmi le scarpe.

Probabilmente, visto il malanimo di entrambi per Renzi, qualcuno di loro due si sarà pure avventurato ad auspicare la sconfitta del presidente del Consiglio nel referendum costituzionale del 4 dicembre, visto che Obama nell’incontro alla Casa Bianca gli aveva augurato di vincerlo. E lo aveva pure incoraggiato, fra le reazioni sdegnate del brancaleonesco fronte italiano del no, a restare al suo posto in caso di sconfitta.

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Nello stesso palazzo di Montecitorio, all’incirca mentre i due colleghi di partito di Renzi si confrontavano così simpaticamente sulla sua sfortuna, attiva o passiva che fosse, il segretario leghista Matteo Salvini spiegava in una conferenza stampa come e perché al presidente del Consiglio convenisse ormai rinunciare alla prosecuzione della campagna referendaria per il suo scontato esito negativo. Che, fuori da Montecitorio, Beppe Grillo metteva nel conto del mondiale “vaffanculo” – scusate la parolaccia – partito dagli Stati Uniti con l’elezione di Trump: un monumento vivente, secondo il comico genovese, alla salutare rivoluzione contro la globalizzazione e le sue nefandezze.

Ho dovuto aspettare la sera televisiva per riconciliarmi un po’ con la realtà e il buon senso sentendo, pensate un po’, Carlo De Benedetti – si, proprio lui, l’editore di Repubblica – parlare degli effetti pericolosi della vittoria di Trump e persino difendere Silvio Berlusconi dal paragone proposto da Lilli Gruber col quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti.

L’unica cosa che accomunerebbe i due, secondo De Benedetti, sarebbe la tendenza all'”imbrogliuccio”, che con quel diminutivo fa pensare ad un peccato veniale. Per il resto, Trump avrebbe “più debiti che soldi”. E sul piano politico si sarebbe più o meno subdolamente impadronito del partito repubblicano degli Usa, spiazzandone i rappresentanti storici, mentre Berlusconi a suo tempo ebbe la fantasia e il coraggio di mettere su un partito suo sottoponendolo al giudizio degli elettori. Cosa, questa, che riconosciuta da un avversario come De Benedetti, dovrebbe avere inorgoglito l’ex presidente del Consiglio italiano e lenito il dolore di avergli dovuto pagare una montagna di euro per l’affare Mondadori: “una rapina”, commentò a suo tempo la figlia Marina.

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Oltre a preferire Berlusconi a Trump, anche se il solito berlusconiano Renato Brunetta ha condiviso l’entusiasmo di Grillo e di Salvini per il cambiamento in corso alla Casa Bianca, De Benedetti ha annunciato il suo sì alla riforma costituzionale di Renzi. Lo ha fatto condividendo l’aggettivo “perfetto” usato dal suo amico Eugenio Scalfari per valutare il cambiamento della contestatissima legge elettorale della Camera concordato nell’apposita commissione del Pd col consenso di Gianni Cuperlo, rappresentante della minoranza più ragionevole e coerente. All’impegno di cambiare il cosiddetto Italicum editore e fondatore di Repubblica avevano notoriamente condizionato il passaggio dal fronte referendario del no a quello del sì.

A Massimo D’Alema, a Pier Luigi Bersani e agli altri dissidenti del Pd rimasti invece sul fronte del no per partito ormai preso, non fidandosi – dicono – degli impegni di Renzi e dei suoi inviti a “stare sereni”, vista la fine ben poco serena riservata quasi tre anni fa al povero Enrico Letta, decretata però anche con il consenso di chi oggi lo rimpiange, l’editore di Repubblica ha riservato un gesto liquidatorio peggiore di ogni parola critica.

Per la logica degli scongiuri, ormai dominante fra i piddini, non vorrei che, in caso di sconfitta referendaria di Renzi, anche l’ingegnere venisse iscritto d’ufficio nell’albo dei menagramo. Il compianto Giovanni Leone avrebbe già fatto ricorso ai vivaci riti napoletani delle corna, superstizioso com’era. Celebri furono quelle opposte dall’allora presidente della Repubblica al colera, nelle corsie di un ospedale partenopeo, e alle contestazioni subite in piazza in quel di Pisa, se non ricordo male.

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