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Perché alla Chiesa del Medio oriente la vittoria di Trump non dispiace

Mentre in occidente l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca ha suscitato reazioni che vanno dall’indignato al preoccupato – emblematiche in tal senso sono state le dichiarazioni, almeno due, del presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker – nell’episcopato del vicino e medio oriente il risultato del voto americano è stato accolto in modo assai diverso. L’interpretazione è stata, qui, più sfumata e sfaccettata, ma del giudizio tranchant che s’è letto ad altre latitudini non v’è alcuna traccia.

“STANCHEZZA VERSO GUERRE NON GIUSTIFICATE”

“Il medio oriente e gli stessi elettori americani hanno mostrato con questo voto la loro stanchezza verso guerre non giustificate, morti, violenze e distruzione. Vi è uno scontento diffuso verso una politica non chiara, poco equilibrata e la speranza diffusa è che vi possa essere un cambiamento in un’ottica di pace e di stabilità”, ha detto qualche giorno fa ad AsiaNews il patriarca di Baghdad, Louis Raphael Sako. Non solo, visto che il presule ha aggiunto che “in Iraq, e non solo nella leadership politica ma anche fra i cittadini, prevale un sentimento di soddisfazione che però non ha spazzato via il clima generale di attesa e paura per un’escalation della tensione e dei conflitti generali”.

LE RAGIONI DELLA PRUDENZA

La paura e l’attesa sono dovute, in particolare, al fatto che Trump è un fenomeno tutto da scoprire, non avendo un background politico che renda possibile comprendere il suo orientamento relativo alle principali questioni di politica estera. Non a caso, diversi commentatori arabi l’hanno definito un “mercante”, ipotizzando che per questioni d’affari sia pronto anche a sacrificare princìpi e orientamenti in fatto di diplomazia globale. Anche le prime nomine della sua Amministrazione (da Flynn a Sessions fino a Pompeo) non consentono ancora di fornire esaurienti indizi sull’approccio che vorrà tenere riguardo il vicino oriente. Di certo, però, l’episcopato locale spera che si sia chiusa la lunga parentesi dell’interventismo americano nella regione (èra Bush) e delle incertezze obamiane. In particolare, le chiese del vicino e medio oriente auspicano un approccio più sereno e collaborativo con la Russia, garante e grande protettrice in Siria del governo di Bashar el Assad, a sua volta considerato il protettore delle comunità cristiane.

L’OSTILITA’ VERSO CLINTON

Da questo punto di vista, un’Amministrazione democratica a guida Clinton avrebbe garantito l’opposto, e cioè un confronto più duro ed esasperato con Mosca, la determinazione a defenestrare Assad, un rinnovato interventismo muscolare nel quadrante. Dopotutto, Hillary Clinton era segretario di stato quando iniziarono le Primavere arabe, che toccarono il culmine con la defenestrazione e l’uccisione di Muammar Gheddafi in Libia (operazione che Obama accolse controvoglia). Di riflesso, le chiese cristiane siro-irachene temevano i legami di Clinton con l’Arabia Saudita e il Qatar, considerate le “bestie nere” nascoste dietro le falangi del Califfato che da anni forniscono armi e denaro alle milizie jihadiste. Tutti fattori che hanno contribuito alla riduzione (e in qualche caso documentato alla scomparsa) degli antichi insediamenti cristiani in quella che era la Mesopotamia.

MOSCA GRANDE PROTETTRICE

Non è un caso che da almeno due anni il clero cristiano siro-iracheno guardi più alla Russia ortodossa come la grande protettrice, mentre all’occidente siano rivolti per lo più strali e accuse per aver fomentato l’incendio odierno.



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