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Donald Trump, il populismo, i sondaggi e le frottole

L’elezione di Trump è stata accolta da parte di molti commentatori e politici con sincera sorpresa e una raffica di commenti scioccati riferiti all’”ondata populista”, di cui le popolazioni occidentali sarebbero “vittima”, e al “fallimento dei sondaggi”.

Personalmente, al contrario, penso che non stia succedendo niente di così imprevedibile e che dobbiamo abituarci a un cambio di paradigma. Chiamiamola società liquida, sabbiosa, paludosa o isterica ma è chiaro ormai a tutti che gli occhiali che usavamo per leggere la società e gli eventi si sono rotti. Non resta che cambiarli. Come? Provo a dare la mia breve lettura su due punti: populismo e sondaggi.

Populismo. Spiegavo ad un amico americano, preoccupato per Brexit, presidenziali Usa e referendum italiano, che quando hai fenomeni con percentuali oltre il 30 per cento a totale popolazione non puoi considerarli di nicchia o snobbarli come “protesta popolare che poi rientrerà col tempo”. E nemmeno puoi gestirli usando la stessa tecnica che useresti con fenomeni equivalenti ma caratterizzati da un target con un titolo di studio superiore e smart (ricordiamoci che solo il 13 per cento degli italiani è laureato). Perché la capacità di questi elettori di modificare l’opinione del primo target, più basico, è residuale. In biologia si direbbe che i vasi sono poco comunicanti.

Per modificare le “quote di mercato” politiche risulta anche poco efficace, se non un boomerang, sovraesporsi sui media off e on-line. Poiché le intenzioni di voto sono frutto di una lunga serie di macro e micro decisioni razionali ed emotive che portano ogni elettore a riconoscersi o meno in un candidato e un partito. Decisioni che possono cambiare nel corso del tempo in funzione del ciclo di vita, della presenza di figli in famiglia, della condizione socio-economica e lavorativa e di molte altre variabili che non sto qui ad elencare. Non parliamo comunque di cambiamenti drastici a meno di eventi dirompenti e protratti nel tempo (es. stagione Mani Pulite o grande crisi economica). Campagne elettorali brevi non spostano grandi quote di voti a meno che non incrocino un’area elettorale instabile: delusi, giovani, classe media. Tralasciamo per un attimo l’importanza del contenuto delle campagne elettorali, i punti programmatici e l’agenda di un candidato, che meriterebbero un approfondimento specifico.

Dunque, non è populismo. Di seguito un paio di esempi. Se un terzo dell’elettorato nazionale italiano dichiara, ormai da molti mesi, di voler votare il Movimento 5 Stelle e se il giorno dei ballottaggi i voti reali arrivano anche al 68 per cento, come nel caso Raggi, non è populismo ma normale voto. I sondaggi rilevano correttamente questi dati? Certo. I politici conoscono questi sondaggi in anticipo? Di solito si. Conoscono le motivazioni del voto verso un candidato o l’altro, punti di forza e debolezza? Ovviamente! Se il candidato ha tutte le informazioni e durante la campagna non sposta voti in suo favore stiamo semplicemente parlando di un modo vecchio o sbagliato di rapportarsi con gli elettori. Non è un problema dell’elettore ma del proponente! La relazione tra politica ed elettorato ormai è alla pari ed è basata sulla reciprocità dell’ascolto e delle risposte: chi non lo capisse si mette da solo fuori “mercato”. Le aziende, che per vendere prodotti o servizi hanno a che fare quotidianamente con i clienti, sanno benissimo di cosa stiamo parlando. Revisione dei processi, della front line, del back office, della gestione del personale, della catena di comando. La scelta della squadra è importantissima, deve essere eterogenea ma armonica, più punti di vista sono una ricchezza non un limite, ne consegue la valorizzazione dei talenti.

I partiti Italiani sono pronti per il cambio di mentalità?

Le donne operaie del Wisconsin hanno votato in massa Trump. Tre sono le cose: o Clinton non convinceva, o non volevano una donna presidente oppure Trump ha parlato al loro cuore. Non è populismo, è voto. I giovani di Ny, dove ho lavorato per anni, sono scesi oggi in piazza per protestare contro Trump e il suo elettorato. Esattamente come è accaduto a Londra per Brexit, senza peraltro esito significativo, e in quel caso erano i giovani metropolitani che non sono andati a votare. Film già visto, sta diventando un rito e ci abitueremo anche a questo.

Sondaggi. Le analisi sociali, analisi del web e i sondaggi, se ben fatti, misurano correttamente la situazione reale. Tant’è vero che le aziende usano massicciamente e con grande soddisfazione tutti questi “strumenti” di conoscenza per incrementare le quote di mercato e i fatturati, monitorare la reputazione del brand e del proprio top management. Questo ultimo indicatore di Reputazione lo considero “predittivo” dello stato di salute del business di un’azienda nel volgere dei successivi 6-8 mesi così come, per un politico, lo è l’indice di fiducia e di “accountability” complessiva.

Relativamente alle analisi in campo politico e dell’opinione, dobbiamo però distinguere tra sondaggi pubblici e riservati. I sondaggi pubblici, compresi quelli del New York Times, sono spesso usati per fare propaganda o avallare la linea politica del giornale, soprattutto se ha fatto l’endorsement verso un candidato (ma aumenta i lettori?). Sui giornali, anche Italiani, facilmente non leggerete il set completo dei dati di un sondaggio ma solo quello che il direttore della testata vorrà far sapere ai suoi lettori.

Viceversa, i sondaggi e le analisi riservate dicono tutto e sono molto dettagliate, la qualità dell’analista consente di capire i dati nel profondo.

In questo senso, i committenti dei sondaggi politici sanno bene qual è lo scenario competitivo in cui si muovono, come affrontarlo e quale sarà l’esito della campagna in funzione degli interventi pianificati. E lo sanno con largo anticipo su tutti.

Dire “i sondaggi sbagliano” o “era uno scenario imprevedibile” è, nel migliore dei casi, una tecnica di comunicazione.


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