A dispetto dell’ottimismo che ostenta in pubblico, il fronte referendario del no è troppo nervoso per apparire credibile nella sua certezza di vittoria.
Già il solito ricorso gridato all’altrettanto solita magistratura contro i presunti abusi epistolari che Renzi avrebbe compiuto in qualità di segretario del Pd nella propaganda del sì presso i circa 4 milioni di elettori italiani all’estero, che potrebbero risultare decisivi per il risultato, è un indice significativo delle preoccupazioni dei signor No.
D’altronde, ci sono precedenti in questa materia. Un po’ per il numero effettivamente e forse troppo generosamente alto degli iscritti alle liste degli elettori italiani oltr’Alpe e oltre Oceano, un po’ per le pasticciate modalità di attuazione del loro diritto a votare introdotto nella Costituzione per la ostinata volontà della buonanima del missino e poi post-missino Mirko Tremaglia, è già capitato al voto estero per corrispondenza di risultare determinante nelle elezioni. Romano Prodi, per esempio, vinse per il classico rotto della cuffia le elezioni politiche del 2006 proprio grazie ai voti degli italiani all’estero, e non solo per i brogli nel Casertano e dintorni denunciati dal presidente del Consiglio uscente Silvio Berlusconi, ma rapidamente archiviati dal suo ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu fra i solleciti della buonanima – pure lei – di Carlo Azeglio Ciampi, allora presidente della Repubblica. Al quale qualcuno telefonò al Quirinale dalla vicinissima Piazza dei Santissimi Apostoli perché stanco del ritardo col quale il “popolo” del cosiddetto centrosinistra aspettava di festeggiare la vittoria.
La resa alle pressioni di Ciampi costò cara al povero Pisanu, ora ex forzista. Lo sconfitto Berlusconi ne bocciò la candidatura al maggiore incarico parlamentare spettante all’opposizione: la presidenza del Copasir, cioè del comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, con compiti di vigilanza sui servizi segreti. Gli fu preferito il collega di partito Claudio Scajola.
Allora la sinistra non ebbe nulla da ridire, non solo sulle contestazioni nei seggi del Casertano e dintorni, ma neppure su quelle riguardanti i voti degli italiani all’estero, le cui schede peraltro finirono un po’ disordinatamente, diciamo così, in un deposito vicino Roma. La cosa comunque non portò molta fortuna a Prodi, il cui governo dopo meno di due anni era già in crisi, portandosi appresso, nella rocambolesca caduta nell’aula del Senato, tra festeggiamenti scomposti alla mortadella sui banchi della destra, l’intera legislatura. Seguirono infatti le elezioni anticipate del 2008, vinte dall’allora Cavaliere.
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Altri segni di nervosismo si colgono nel Pd, dove la minoranza attende con terrore, o quasi, la convocazione della direzione e forse anche dell’assemblea nazionale del partito per la ratifica dell’accordo raggiunto nella commissione appositamente istituita nella precedente riunione della direzione per definire le modifiche alla legge elettorale della Camera chiamata Italicum, ma anche la legge ordinaria che, in caso di conferma referendaria della riforma costituzionale, dovrà disciplinare nei dettagli la formazione del nuovo Senato. Esso sarà composto, come si sa, da sindaci e soprattutto consiglieri regionali, oltre agli ex presidenti della Repubblica e a cinque benemeriti nominati dal capo dello Stato di turno e destinati a decadere con lui. L’accordo raggiunto nella commissione del Pd prevede che i consiglieri regionali destinati anche al Senato siano eletti dai cittadini con un’apposita scheda, per cui i cento inquilini nuovi di Palazzo Madama risulterebbero praticamente eletti pure loro.
Potremmo chiamare “lodo Cuperlo” l’accordo raggiunto nell’apposita commissione del Pd per l’assenso dato, con tanto di trattativa, dal rappresentante della minoranza: il deputato ed ex presidente del partito Gianni Cuperlo, appunto, trattato per questo dai piddini rimasti contrari come uno sprovveduto o un traditore.
A questo accordo o lodo Cuperlo gli irriducibili del no hanno negato valenza politica liquidandolo come una “mezza paginetta” –ha detto, per esempio, Massimo D’Alema– troppo generica e piena di condizionali per essere presa sul serio, peraltro neppure chiaramente o convintamente accettata dal segretario del partito, nonché presidente del Consiglio.
Di questa diffidenza ha cercato di farsi in qualche modo interprete nel suo consueto appuntamento domenicale con i lettori il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari. Che, pur avendo nella domenica precedente definito “perfetto” l’accordo, prevedendo per l’elezione della Camera, fra l’altro, la rinuncia al ballottaggio, un premo di maggioranza non più alla lista ma alla coalizione più votata e il ritorno ai collegi uninominali, sostitutivi dei capilista bloccati, ha rimproverato a Renzi di averlo prima condiviso e poi “mandato in soffitta”.
E’ stato proprio dalla “soffitta” lamentata a torto o a ragione da Scalfari, già espostosi in precedenza con la richiesta di una pubblica comunicazione di Renzi al Parlamento, che il presidente del Consiglio ha tirato fuori il lodo Cuperlo cogliendo al volo l’occasione furbescamente offertagli in televisione, a Rai 3, da Fabio Fazio. Che gli ha chiesto: “Ma lei condivide quell’accordo”. E lui: “Certo che lo condivido”.
Manca ora, per togliere definitivamente ogni alibi a D’Alema, Pier Luigi Bersani e compagni, per rimanere nel Pd e non coinvolgere, come pure sarebbe logico, anche gli altri attori del fronte referendario del no, o il formale assenso degli organi di partito o la comunicazione alle Camere, nel modo che sceglierà Renzi, o entrambe, naturalmente. Cosa che equivarrebbe per Bersani, volendo ricorrere ad una delle sue immagini ironiche, alla fuga della “mucca” dai corridoi del partito, dove tutti avrebbero finto per mesi di non vederne la ingombrante presenza e avvertirne gli inevitabili –credo- escrementi.
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Due parole, adesso, ma proprio due, sul cosiddetto centrodestra, reduce dalle piazze contrapposte di Firenze e di Padova. Due parole per dirvi solo che l’autocandidatosi leader Matteo Salvini attende con ansia il “contatto”, mancato almeno sino al momento in cui scrivo, da parte di Donald Trump. Che, in attesa di insediarsi davvero alla Casa Bianca, ha dato la precedenza ai contatti, appunto, con i salviniani, chiamiamoli, di lingua inglese e francese: Nigel Farage e Marine Le Pen.
Questo ritardo ha messo –o aveva messo, in caso di recupero in giornata- in allarme il segretario della Lega per le difficoltà avute nei mesi scorsi da Trump di riconoscerlo in una foto scattata con lui, fra le tante, durante la campagna elettorale americana.