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Referendum, perché il Sì è salutare non solo per l’economia

Di Giampaolo Galli

Malgrado le molte riforme realizzate almeno dall’inizio degli anni Novanta a oggi, l’Italia non è sinora riuscita a risolvere i suoi due problemi principali, da cui discendono quasi tutti gli altri: quello della crescita economica che langue e quello del debito pubblico che continua ad aumentare. In una famosa classifica di The Economist, nel periodo 2000-2010 l’Italia è uno dei Paesi al mondo che, in termini di Pil pro capite, ha avuto la crescita più bassa. Negli anni della crisi, l’Italia è stato uno dei Paesi colpiti più duramente. Dal 2014, l’Italia ha ricominciato a vedere qualche segno positivo, ma ancora oggi la crescita è stentata. Il debito pubblico è fra i più alti al mondo e ancora non scende.

Con bassa crescita e alto debito, ci mancano le risorse per affrontare i molti problemi della società italiana e siamo esposti ai rischi che continuamente si affacciano sulla scena nazionale e internazionale. I problemi sono diventati più pressanti con lo sviluppo della globalizzazione e l’adesione alla moneta unica. Oggi, gli osservatori si chiedono cosa possa succedere quando cesserà la politica straordinariamente espansiva della Bce, anche perché la crisi del 2011 è ben presente nella memoria degli investitori. Secondo alcuni, con una crescita così bassa, il nostro debito pubblico non sarebbe più sostenibile. In alcuni think tank internazionali – e in alcune cancellerie ­– si studiano ipotesi, a mio avviso da respingere in quanto assolutamente distruttive, di consolidamento forzoso dei titoli del debito italiano.

Il nesso con la riforma costituzionale sta nella circostanza che, come diceva Tommaso Padoa-Schioppa, l’Italia ha quasi sempre avuto governi con la veduta corta. La riforma pone le premesse per allungare la veduta dei governi perché elimina due fattori di potenziale instabilità: la necessità di ottenere la fiducia di due Camere, spesso con maggioranze diverse, e l’eccessivo potere che fu dato alle regioni con la riforma del 2001. Il numero che viene spesso citato, 63 governi in 70 anni, non racconta tutta la storia. Ad esempio, il governo Berlusconi che si formò dopo le elezioni del 2001 fu il più longevo della storia repubblicana, ma non durò un’intera legislatura e, soprattutto, navigò a vista, letteralmente di settimana in settimana, per tutta la sua durata.

Si criticano spesso le aziende quotate, specie del mondo anglosassone, perché sarebbero affette da veduta corta, ossia guarderebbero più alla prossima trimestrale che alla crescita sostenibile dell’azienda. Questa critica vale, a molta ragione, per i governi italiani. Questo stato di cose ha varie conseguenze. La prima è la tendenza al rinvio: se un governo teme di avere i giorni contati, lascia per tempi migliori i problemi più complessi. Le continue svalutazioni della lira e l’accumulazione di debito pubblico sono stati i modi attraverso cui si è realizzato il rinvio. Si obietta che ci sono stati periodi della storia repubblicana in cui governi di coalizione, privi di solide maggioranze, sono riusciti ad aggiustare i conti pubblici e a evitare le svalutazioni. Questo è vero, ma i governi che hanno fatto questo – ad esempio, quelli di centro sinistra nella seconda metà degli anni Novanta – hanno dovuto spendere un enorme capitale politico, pagando spesso il prezzo di una sconfitta elettorale e della sostituzione con governi meno attenti alle conseguenze future delle proprie azioni.

La tendenza al rinvio si manifesta anche sotto forma di disattenzione all’attuazione pratica delle riforme. Ad esempio, non basta una legge per fare lo sportello unico delle imprese e non basta neanche un decreto attuativo: occorre addestrare il personale, cambiare il modo di lavorare, trovare le sedi ecc. Un governo con la veduta corta ha interesse ad annunciare che ha proposto una legge, ha interesse forse a farla approvare, ma ha scarso interesse a vederla effettivamente realizzata, perché l’attuazione richiede tempo e continuità amministrativa. Ponendo la questione in questi termini, è evidente che la veduta corta è stata una caratteristica anche dei governi della Prima repubblica. Si dice spesso che allora i governi duravano poco, ma c’era continuità politica nel senso che, di rimpasto in rimpasto, erano sempre gli stessi a governare. Ma quale interesse poteva avere un presidente del Consiglio di un governo destinato a durare pochi mesi ad affrontare davvero il problema del debito pubblico? O quale interesse poteva avere un ministro dell’Industria ad attuare strumenti efficienti di interazione con le imprese su tutto il territorio nazionale?

Una diversa e non meno importante disfunzione derivante dall’attuale assetto istituzionale è la produzione di leggi incomprensibili, che sembrano fatte apposta per ostacolare l’afflusso di investimenti esteri. In ogni commissione di ciascuna delle due Camere, oltre che in aula e nelle Regioni, si formano minoranze la cui esistenza dipende in larga misura dalla capacità di essere di ostacolo alla maggioranza nel corso dell’approvazione delle leggi. Per essere approvate, le leggi devono superare i veti incrociati di tutte le minoranze di blocco. Per questo sono ambigue e spesso incomprensibili, il che imbriglia le imprese in dedali burocratici scoraggianti.

Per alcuni osservatori, l’insieme di questi problemi non dipenderebbe tanto da fattori di tipo istituzionale, quanto dalla debolezza delle classi dirigenti italiane o dalla mancanza di una visione condivisa del ceto politico. Può darsi che ci sia del vero in questa teoria. Ma nessuno ha un’idea di come si faccia a riformare le classi dirigenti di un Paese. Esse sono in larga misura il frutto della storia e non possono certo essere “rieducate” facendo una legge. Le istituzioni, invece, possono essere cambiate: farlo è una condizione necessaria, anche se ovviamente non sufficiente, per vincere la sfida della crescita nell’era dell’euro e della competizione globale.

Giampaolo Galli (Economista e membro della Commissione bilancio della Camera dei deputati)

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