Al di là delle rilevanti innovazioni contenute nella riforma costituzionale, il referendum confermativo viene ormai percepito come una sorta di giudizio universale, di resa dei conti finale, tra Renzi e 5 Stelle, renziani e bersaniani, centristi governativi e centrodestra di opposizione. Traspare con chiarezza, ascoltando alcune voci a sostegno del No, la speranza di ottenere, in caso di vittoria, un certo ridimensionamento della posizione di forza del “Rottamatore”.
Tra i fautori del No, molti evocano, inoltre, il rischio di un possibile vulnus alla democrazia, non perché la riforma costituzionale, di per se stessa, preveda una forma di rafforzamento del ruolo del governo o del premier, rispetto al Parlamento – perché così, obiettivamente, non è -, ma per la combinazione delle sue innovazioni con il nuovo sistema di elezione della Camera, introdotto dall’Italicum.
L’attribuzione della maggioranza assoluta dei seggi al partito vittorioso determinerebbe, secondo questa opinione, l’acquisizione di un potere eccessivo da parte del premier indicato dal partito stesso, attenuando sensibilmente l’efficacia di contrappesi e condizionamenti, tenendo conto che solo la Camera dei Deputati, in base alla riforma costituzionale, voterebbe la fiducia al governo. L’eventualità di una vittoria, al secondo turno, di un partito che, al primo, si sia rivelato rappresentativo di una minoranza, forse anche esigua (in caso, ad esempio, di grande frammentazione dell’elettorato e proliferazione di sigle), pone, inoltre, una questione di effettiva rappresentatività dei futuri governanti. La preoccupazione della deriva autoritaria o oligarchica appare, tuttavia, troppo allarmistica e, in taluni casi, strumentale ad intenti di lotta politica di parte, perché, in realtà, in Italia, lo scenario politico non sembra tollerare, nelle sue concrete dinamiche, le “blindature”, sia pure indotte da innovazioni normative. La tendenza alla frammentazione e proliferazione di gruppi e partiti, da noi, può compromettere anche la maggioranza più blindata.
Una maggioranza parlamentare, con gli ampi margini garantiti dal premio, potrà sempre scomporsi e frantumarsi, costringendo il partito uscito vincitore o il Capo dello Stato a nuovi esperimenti. Chi non ricorda quanto avvenuto nella scorsa legislatura, nelle camere elette nel 2008 ? In quell’occasione Berlusconi aveva ottenuto uno dei migliori risultati riscontrati dall’Unità d’Italia in poi, tenendo conto della normativa elettorale vigente. Maggioranza assoluta alla Camera e al Senato, piena garanzia, quindi, sulla carta, di tranquilla e operosa navigazione per il suo quarto governo, formato a seguito di quella consultazione. Ma l’epilogo si è rivelato inglorioso: la dissociazione politica del numero due del Pdl, Gianfranco Fini, cui aderì un discreto numero di parlamentari, modificò sensibilmente i rapporti di forza, provocando, dopo un anno di resistenza e di rimedi precari, le dimissioni di quel governo.
Contro il rischio, sia pure remoto, dell’ “uomo solo” e delle sue degenerazioni sarebbe comunque opportuno mettere mano di nuovo alla legge elettorale, correggendo l’Italicum. Si rivelerebbe, soprattutto, necessaria l’eliminazione del secondo turno di ballottaggio, evitando così l’eventualità che una minoranza, con percentuali particolarmente contenute, possa beneficiare del premio di maggioranza alla Camera, lasciando il quorum al 40% al primo e, a questo punto, unico turno, ai fini dell’acquisizione del premio stesso. Occorrerebbe, inoltre, prevedere la possibilità che anche una coalizione di partiti – laddove risulti vittoriosa, integrando il quorum – e non solo un singolo partito possa beneficiare del premio di maggioranza. Questa possibilità incentiverebbe la formazione di coalizioni, più idonee a raggiungere un quorum elettorale così elevato. Una vittoria di coalizione, peraltro, ridurrebbe il rischio paventato di involuzioni oligarchiche o autoritarie, poiché un’alleanza a più voci potrà meglio bilanciare la leadership del premier e assicurare una maggiore condivisione di iniziativa e di responsabilità. Il quorum al 40% dei consensi garantirebbe l’assegnazione della maggioranza assoluta dei seggi – e quindi la legittimazione a governare – a una coalizione ampiamente rappresentativa, benché tuttora ci sembrerebbe preferibile e auspicabile la soglia del 50%, come prevedeva la legge promossa da De Gasperi e Scelba nei primi anni Cinquanta, a torto ribattezzata dai detrattori “legge truffa”. Con l’auspicio, naturalmente, di coalizioni omogenee, convergenti su programmi comuni, armoniche al loro interno, altrimenti l’esecutivo sarebbe segnato da una condizione di perenne precarietà. Modifiche nel senso indicato sono state recentemente prospettate dal gruppo dirigente del Pd, soprattutto nell’intento di superare il dissenso della sinistra interna.
Anche la nuova composizione del Senato, come prevista dalla riforma costituzionale, è oggetto di diffuse contestazioni: un sistema di elezione di secondo grado, da parte dei consigli regionali e delle provincie autonome, salvi i cinque nominati dal Capo dello Stato. Viene contestata, in particolare, “l’espropriazione” del diritto dei cittadini di scegliere i senatori. Ma i novantacinque senatori eletti dalle istituzioni territoriali sarebbero consiglieri regionali (o provinciali di Trento e Bolzano) e sindaci, che, in quanto tali, vengono già scelti nominalmente dai cittadini. Figure istituzionali che sono, quindi, diretta espressione del consenso popolare.
Altro aspetto criticato investe la pretesa inidoneità dei nuovi senatori, ritenuti – secondo questa opinione – non particolarmente qualificati e, peraltro, già abbastanza occupati, nelle attività di competenza comunale o regionale. Non disporrebbero, quindi, del tempo sufficiente per partecipare ai lavori del Senato. Si è diffusa, infatti, una vulgata politica e mediatica che tende a rappresentare i consiglieri regionali, in particolare, come una classe dirigente screditata e inaffidabile, con un’irragionevole generalizzazione rispetto a fenomeni deteriori che sono stati oggetto di scandalo e di iniziative giudiziarie. A parte l’assurdità di tale generalizzazione – per uno che possa aver sbagliato ci possono essere moltissime persone più che degne – appare ancor più paradossale che questa pretesa “inidoneità” venga ritenuta una sorta di dato incontrovertibile e permanente.
Quanto alla mancanza di tempo, si potrebbe ovviare con l’elezione come senatori di quei consiglieri regionali non investiti di incarichi di giunta o di consiglio particolarmente impegnativi, coma avveniva, mentre era in vigore il vecchio ordinamento delle comunità montane, quando i consigli comunali designavano alcuni loro componenti come consiglieri delle comunità medesime, che erano, appunto, organismi formati con elezione di secondo grado. Quanto ai futuri “sindaci senatori”, la presidenza del Senato potrebbe coordinarsi con i comuni, magari con la mediazione dell’Anci, per individuare tempi e modalità di lavoro compatibili con gli impegni dei primi cittadini.