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Perché Mister Spread torna a molestare l’Italia

Il balzo in avanti degli spread, che ieri hanno toccato i 183 punti base, evoca scenari preoccupanti. Non ne siamo sorpresi. Due settimane fa avevamo annunciato la triste novella, ricordando a tutti che il periodo di calma relativa volgeva alla fine. Ma nello spazio di 15 giorni l’aumento è stato di circa il 30 per cento, con un’evidente accelerazione di cui non è possibile individuare l’esito finale. Le ragioni del fenomeno sono quelle già descritte: la complessa situazione internazionale, dal punto di vista economico e politico; le difficoltà che incontra Mario Draghi nei suoi rapporti con i contestatori tedeschi, e non solo; le scelte sempre più ravvicinate della Fed, che inizierà le operazioni di tapering (ossia il rientro dall’eccessiva liquidità); e, infine, la complessa situazione italiana.

Su questo scenario preesistente si è abbattuto il ciclone dell’elezione americane. Il trionfo di Donald Trump ha buttato benzina sul fuoco. Inizialmente visto dai mercati come un fattore di ulteriore turbolenza, ben presto gli atteggiamenti sono mutati. Sarà anche un Presidente “razzista”, come affermano gli oppositori che organizzano marce di proteste, ma il suo programma politico – l’America innanzitutto – ha conquistato il portafoglio di tanti investitori. Ed ecco allora che il dollaro, fino a ieri debole e bistrattato, in pochi giorni ha messo a segno un rialzo del 4 per cento. Segno di un’inversione di tendenza, dovuto al flusso di capitali che dall’intera Europa sorvolano l’Atlantico. Non a caso, i rendimenti sui titoli europei, compresi i bund tedeschi, hanno risollevato la testa, a causa delle maggiori vendite, rispetto a un vuoto improvviso di domanda.

Quanto pesa l’estero e quanto le specifiche vicende italiane? Questo è l’interrogativo di fondo. Che esista una simmetria che congiura verso il peggio, è evidente. Più difficile è separare il grano dal loglio. Matteo Renzi ha subito cercato di portare acqua al mulino del Sì. Se gli spread aumentano, questo è colpa della vecchia “casta” che non vuole rinunciare ai propri privilegi. Tenetelo a mente, il prossimo 4 dicembre, quando vi troverete nella cabina elettorale. Magari fosse così semplice. Che il clima infuocato del referendum pesi è evidente. Che sia questa la causa scatenante ce ne corre. Se non altro perché la lunga rincorsa al rialzo era iniziata molto tempo prima. Per precisione dalla metà di agosto quanto quel valore era pari a circa 115 base.

L’attenzione va allora riposta su altri elementi. Non dimentichiamo che solo qualche giorno fa la Commissione europea ha fotografato la situazione italiana, con chiaro-oscuri ben diversi dai documenti governativi. Previsioni di crescita più contenute e deficit in deciso aumento non solo per il 2017, ma per l’anno successivo: quanto raggiungerà il 2,5 per cento del Pil. Con un debito pubblico destinato a rimanere inchiodato al 133,1 per cento. Non è un buon viatico per chi vuole investire in Italia. Probabilmente non vi sarà alcuna fuga. Ma all’aumento del rischio non potrà non corrispondere un maggior compenso: sotto forma di tassi di interesse più elevati.

C’è poi il capitolo dei rapporti con l’Europa, che il premier ha cavalcato con toni populistici. Ha giovato all’immagine dell’Italia o non ha determinato ulteriori incertezze? Che vi fosse bisogno di una manovra espansiva, dopo l’oscurantismo dell’austerity, è fuori dubbio. Ma qual è la relativa novità? Rilancia crescita ed investimenti? Dimostra un effettivo cambiamento di passo? Nel 2016 avremo una riduzione del carico fiscale di circa 5 miliardi. Ma è un dato puramente virtuale. Sconta infatti la copertura delle clausole di salvaguardia, che da sole valgono oltre 15 miliardi. Per cui dalle tasche degli italiani usciranno 8 miliardi in più, considerati i 2 miliardi che dovrebbero affluire dalle concessioni per le frequenze delle telecomunicazioni.

In compenso la spesa corrente aumenta di 5,2 miliardi. Di cui il 62% si distribuisce tra pubblici dipendenti, Enti territoriali e previdenza. Aumenta anche la spesa in conto capitale, ma per un importo che è pari solo al 27 % della spesa complessiva. Per completezza d’informazione si deve dire che le cose andranno leggermente meglio nella prospettiva dell’intero triennio. Ma indossare gli occhiali del presbite, che vede lontano ma non riesce a cogliere le ombre della cattiva congiuntura, non sembra corrispondere al sentiment del mercato. Nel breve è mancato quel segnale forte – riduzione delle spese, abbattimento del carico fiscale, forte crescita degli investimenti – che forse avrebbe giustificato anche un deficit maggiore. Ed una polemica più serrata con la stessa Commissione europea.

L’eccesso di elettoralismo è stato visto da quest’ultima come una furbizia tutta italiana. Che tra l’altro ha fatto scuola. Nicola Zingaretti che elimina il ticket regionale sulla sanità laziale. Virginia Raggi che concede il salario accessorio ai dipendenti comunali. Sarà anche sbagliata, ma l’impressione è quella di una forte ripresa del “partito della spesa”. Argomento più che sensibile per mercati sull’orlo di una crisi di nervi per ragioni di carattere più generale. L’aumento degli spread ha quindi questo retroterra. Durerà? difficile dare una risposta. Troppe sono le variabili in gioco. Ma è bene che la politica – tutta la politica – ci metta la testa.


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