Che pasticcio. I signor No del referendum costituzionale avevano appena esultato per l’aiuto ricevuto dall’Economist, apprezzandone o riscoprendone il prestigio, come nel caso del Giornale di famiglia di Silvio Berlusconi, ed hanno appreso con sgomento che si sta confezionando un numero di fine anno del settimanale inglese di tutt’altro segno, favorevole al presidente del Consiglio Matteo Renzi. Che nel frattempo potrebbe anche aver perduto il referendum del 4 dicembre, magari col contributo del numero dell’Economist di fine novembre, ma probabilmente starebbe ancora a Palazzo Chigi per evidentissima mancanza di alternative.
Di questa mancanza di alternative a Renzi, politiche o tecniche che siano, sono convinti nel Pd – come sanno persino a Londra – anche gli avversari del segretario schieratisi sul fronte del No. A costoro basta indebolire Renzi, non finirlo, sempre che il presidente del Consiglio sia il tipo da lasciarsi rosolare, convertito alla filosofia della buonanima di Giulio Andreotti che sia meglio tirare a campare, piuttosto che tirare le cuoia.
Renzi mi sembra così poco disposto a lasciarsi logorare in caso di sconfitta referendaria da avere rifiutato il soccorso offertogli da Silvio Berlusconi col solito cocktail di furbizia e opportunismo, lasciando perdere, per cortesia, la generosità perché questa è merce estranea al mercato della politica.
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In particolare, pur avendo motivato poco gentilmente per Renzi il Sì dell’amico Fedele Confalonieri alla riforma costituzionale con la paura di ritorsioni ai danni delle aziende del Biscione, l’ex presidente del Consiglio si era dichiarato disposto a sedere al tavolo col segretario del Pd per concordare la nuova legge elettorale già promessa dallo stesso Renzi ma ancor più necessaria dopo un’eventuale vittoria referendaria del No. Una legge il più proporzionale possibile che allontani il rischio di un successo elettorale dei grillini e renda inevitabile per il Pd, incapace di governare da solo per ragioni numeriche, di ricorrere permanentemente alle cosiddette larghe intese, a cominciare con Forza Italia. Che, per quanto malmessa, tornerebbe così in gioco, anche a costo di rompere con la Lega di Matteo Salvini, in difesa della quale invece Berlusconi, sempre lui, non il fratello o un imitatore, ha bruscamente rimosso Stefano Parisi dal ruolo di federatore di un nuovo centrodestra assegnatogli in estate.
Già rimasto comprensibilmente male per l’ombra del ricattatore stesa sulla sua figura con quella curiosa motivazione del Sì referendario del presidente di Mediaset, Renzi ha perso la pazienza. Ha smesso di distinguerlo da Renato Brunetta, e ancor più dalla moglie del capogruppo forzista, mescolatasi per un po’ sotto mentite spoglie fra gli webeti grillini per scrivere contro il presidente del Consiglio e i suoi collaboratori quello che il marito non si spingeva ancora a dire, e ha sbattuto la porta in faccia all’ex presidente del Consiglio.
In altro modo francamente non si può definire l’avvertimento di Renzi che al “tavolo” di una trattativa sulla nuova legge elettorale Berlusconi potrà trovarsi solo con Beppe Grillo e Massimo D’Alema, schierati col presidente di Forza Italia sul fronte referendario del No.
Con D’Alema, d’altronde, prima ancora che con Renzi per il famoso e cosiddetto Patto del Nazareno, Berlusconi aveva già trattato fra il 1996 e il 1997 addirittura una riforma costituzionale facendolo diventare presidente di un’apposita, ed ennesima, commissione bicamerale. L’allora alleato Gianfranco Fini ne prese le distanze.
L’operazione, in verità, era destinata al fallimento, interrotta bruscamente dallo stesso Berlusconi, ma servì ugualmente a D’Alema per crescere mediaticamente e approdare nel 1998 a Palazzo Chigi con l’aiuto di Francesco Cossiga, sostituendo l’incidentato Romano Prodi. Altri tempi, naturalmente, anche per D’Alema, nel frattempo rottamato politicamente da Renzi e difficilmente in grado, anche dopo un’eventuale rivincita referendaria, di tornare in pista.
Con D’Alema al massimo Berlusconi potrebbe farsi dopo il 4 dicembre una partita a bocce. Con Grillo neppure quella, parlandone il comico pentastellato come del “psiconano”.
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Rifiutato da Renzi come interlocutore privilegiato nelle trattative sulla nuova legge elettorale, il cui percorso parlamentare potrebbe occupare quel che resta della legislatura e portare anche ad un anticipo della scadenza delle Camere, a Berlusconi rimarrebbe solo la ben magra prospettiva di contendersi con le altre componenti del fronte referendario del No la quota spettante della eventuale vittoria.
Questa prospettiva sarebbe magra perché i numeri consentirebbero ai grillini di fare la parte del leone, e alle minoranze del Pd quella dello sciacallo. Nell’area che fu del centrodestra la primazia sarebbe ancor più rivendicata dai leghisti, che hanno partecipato alla campagna referendaria del No con maggiore convinzione ed evidenza dei forzisti, divisi fra le urla politiche dei vari Brunetta e il Sì motivato di Marcello Pera e Giuliano Urbani, per non parlare dei fuoriusciti di Denis Verdini e degli altri ancora più stabilmente partecipi della maggioranza governativa di Renzi, cioè quelli di Angelino Alfano.
Stretto nei panni di un partecipante minore al fronte referendario del No, Berlusconi se la dovrebbe insomma vedere solo con Salvini, nel frattempo da lui stesso rafforzato con lo sgambetto, se non vogliamo chiamarlo peggio, dell’unico che aveva cercato davvero di tenere testa al segretario leghista fra i cosiddetti moderati: il povero Stefano Parisi, scaricato persino da Fedele Confalonieri per il suo assai presunto cattivo carattere, che è notoriamente l’argomento persino banale cui si ricorre quando non se hanno di più solidi e onesti.