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Vi racconto la corrida nel Pd fra Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani

Dopo il no di Pier Luigi Bersani anche alle modifiche della legge elettorale concordate con la maggioranza del Pd da Gianni Cuperlo, della minoranza, e la furente reazione di Matteo Renzi davanti ai suoi radunati nella settima edizione della “Leopolda” fiorentina nessuno potrà più negare ciò che, in verità, si era capito già da tempo ma molti ipocriti non volevano ammettere.

Il referendum del 4 dicembre riguarda solo formalmente la riforma costituzionale. In realtà, esso è un supplemento del congresso del Pd di tre anni fa, che portò Renzi, col solito ingrediente delle primarie, al vertice del maggiore partito italiano, e subito dopo alla guida anche del governo.

Scegliete voi se chiamarlo referendum congressuale o congresso referendario, ma questo è l’appuntamento elettorale dal quale ci separa ormai meno di un mese, a meno che una giudice di Milano – la solita Milano, dirà qualcuno – non abbia intenzione di riservarci la sorpresa di un pasticcio. Quale inevitabilmente sarebbe, al di là della volontà dell’interessata, l’accoglimento di un ricorso del presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida per mandare all’esame della stessa Corte, quasi al novantesimo minuto della partita, l’esame di legittimità del quesito unico col quale un’altra Corte, quella di Cassazione, ha deciso di mandare alle urne gli elettori per confermare o bocciare la riforma targata Renzi e Maria Elena Boschi.

Sarebbe un pasticcio enorme per il semplice fatto che allo stato delle cose neppure i più raffinati giuristi, in assenza dei soliti precedenti, sanno dire se e a chi toccherebbe sospendere il referendum, in attesa di sapere se il quesito potrà rimanere unico, con l’indicazione sommaria dei contenuti della riforma, o dovrà essere spacchettato, come volevano all’inizio quelli del fronte referendario del no. E non vogliono più adesso perché sentono, a ragione o a torto, odore di vittoria e temono di perderla con un rinvio, avvertendo evidentemente il pericolo di un recupero del sì.

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Dicevo che a rendere ormai troppo evidente la natura impropriamente congressuale del referendum sono stati sia il capofila politico del no, che è diventato Pier Luigi Bersani scavalcando il collega di partito Massimo D’Alema, e il capofila del sì, che è sempre stato naturalmente Renzi.

Bersani non si è limitato a dire no all’accordo su come modificare la tanto criticata e temuta legge elettorale della Camera, vista come un perfido strumento della volontà di Renzi di instaurare un regime personale, nel partito e fuori, giovandosi anche della semplificazione delle procedure parlamentari derivante dalla riforma costituzionale. Egli ha motivato il suo no con una dichiarazione di sfiducia nei riguardi di Renzi, di cui ha ritenuto di dimostrare l’inaffidabilità rimproverandogli l’ormai strafamoso “stai sereno” detto, ancora fresco di elezione a segretario, all’allora presidente del Consiglio Enrico Letta per meglio rovesciarlo, con la sorpresa, e sostituirlo.

Quello che Bersani ha rimosso dalla memoria, dimostrando un grado di settarismo politico che francamente non mi aspettavo da lui, a lungo scambiato anche da me come un quasi liberale finito per caso a suo tempo fra i comunisti, è che nella riunione della direzione del Pd in cui fu decisa la rimozione di Enrico Letta da Palazzo Chigi Bersani e i suoi furono d’accordo. Solo Beppe Civati, ora non più piddino, e altri 15 amici si opposero. Tutti gli altri – 136 – furono tanto d’accordo che il pur sorpreso presidente della Repubblica in carica in quel momento, Giorgio Napolitano, non mosse un dito, neppure il mignolo, per cercare di puntellare il povero Enrico Letta. Egli ne accettò rapidamente le dimissioni, presentate dall’interessato con un misto di sbigottimento e di rassegnazione ben rappresentato poi dalla sbrigativa e indispettita cerimonia delle consegne a Palazzo Chigi, quando il presidente uscente consegnò con fastidio al successore il campanello d’argento del Consiglio dei Ministri.

L’allora capo dello Stato, se avesse avvertito durante le consultazioni di rito nella gestione della crisi il minimo sentore di una vera divisione nel Pd, sotto la cenere di un accordo insincero, avrebbe dovuto rinviare il governo dimissionario alle Camere per una verifica ufficiale e vincolante della situazione. Proprio Napolitano, d’altronde, aveva a lungo partecipato durante la cosiddetta prima Repubblica alle giustificatissime proteste contro l’abitudine delle crisi cosiddette “extraparlamentari”, che maturavano in qualcuno dei partiti di governo con l’opacità, spesso, dei giochi trasversali delle correnti di qualche altro partito della stessa coalizione.

Non capisco di che cosa si lamenti con tanto ritardo ora Bersani, se non c’è sotto una ormai non più occultabile volontà di resa dei conti nel partito all’ombra o col pretesto del referendum, contando sull’aiuto determinante – e direi anche un po’ osceno sul piano politico – di elettori completamente estranei al Pd e incredibilmente disponibili a questo gioco. Sono gli elettori dei partiti del fronte del no: dalla destra di Matteo Salvini a quella di Giorgia Meloni, dal centro residuo di Silvio Berlusconi e di Renato Brunetta al centrino di Gaetano Quagliariello, dalla sinistra viscerale con vene di destra che è quella di Beppe Grillo alla sinistra un po’ arcaica di Nichi Vendola, dalla corrente giudiziaria di Magistratura Democratica, appena uscita da un congresso tutto anti-riforma costituzionale, alle eminenze della Consulta, dal nome del palazzo dove lavorano e deliberano i giudici costituzionali.

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E veniamo infine a Renzi, al quale vedo che qualcuno ha rimproverato di essere improvvisamente e inopinatamente tornato a “personalizzare” il referendum confermando di fatto l’intenzione di dimettersi in caso di sconfitta. E rifiutando la prospettiva di “governicchi tecnicucci” con cui adempiere alle urgenze del momento e preparare elezioni più o meno anticipate.

Ma, di grazia, permettetemi di chiedere in quale altro modo avrebbe dovuto reagire il segretario del Pd e presidente del Consiglio ad un assalto così sistematico, ostinato e gridato contro di lui da una coalizione di avversari al centro della quale c’è una parte del proprio partito. Che, consapevole della propria debolezza, cerca una rivincita con l’aiuto – ripeto – di esterni, chiamiamoli così.

Cos’altro doveva fare Renzi se non reagire con chiarezza, dare delle “mummie” ai suoi predecessori? Cos’altro doveva fare se non proclamare la sua volontà di resistere, resistere, resistere, come alla rovescia gridava contro l’allora presidente del Consiglio Berlusconi il complesso degli avversari che si riconoscevano nei motti di Francesco Saverio Borrelli, capo della Procura di Milano negli anni di Tangentopoli?

A Cuperlo, involontaria pietra dello scandalo nel melodramma delle minoranze del Pd per la sua adesione alla nuova riforma elettorale, non sono piaciuti quei “fuori, fuori” gridati dai leopoldini all’indirizzo dei vari Bersani e D’Alema. Ma egli converrà nel riconoscere che l’esasperazione è un processo di autocombustione.

La situazione è stata magnificamente espressa sul Corriere della Sera dal vignettista Giannelli con quel Renzi che butta via dalla finestra un Bersani che grida di non volere lasciarsi “mettere alla porta”.

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