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Anis Amri, come evitare i rimpatri-farsa

Marco Minniti

A quanto pare, Anis Amri, il presunto – ma ormai quasi certo – terrorista che ha compiuto la strage nella piazza dei presepi, a Berlino, ha potuto colpire grazie alla complicità del governo tunisino. Una complicità seppure solo opportunistica. Conseguente la volontà da parte di quel Governo di non voler rimpatriare un soggetto ritenuto scomodo e pericoloso. Da tempo ricercato per i crimini commessi.

É una vecchia storia. Molto spesso i singoli Paesi preferiscono ricorrere a un’emigrazione, per così dire, forzata. Fanno ponti d’oro a una criminalità autoctona pur di levarsela dai piedi. Beggar my neighbor, come si diceva negli anni ’30. Peggio per i nostri vicini sui quali siamo in grado di scaricare il costo delle nostre contraddizioni.

Detto, fatto. Sia l’Italia che la Germania, in due distinte occasioni, avevano cercato di riportare in patria un criminale prezzolato. Non ci sono riuscite. Non perché mancassero gli strumenti amministrativi, ma perché il rimpatrio è soggetto a una complessa procedura che presuppone la stretta collaborazione del Paese d’origine. Se le pratiche sono ritardate ad arte, con l’obiettivo di sfuggire a questa scomoda incombenza, il cerino rimane nelle mani del Paese ospitante.

É quanto capitato. E capita per i cento o mille Amri che circolano liberamente. Per fortuna non tutti sono terroristi, ma è difficile non ritenere che questa ambigua collocazione non possa contribuire a una loro eventuale radicalizzazione. Vivere in quelle condizioni significa, infatti, dover contare su una rete di protezione in cui i confini tra la normale criminalità e l’estremismo politico-religioso sono talmente sottili da risultare evanescenti. Non a caso di questo oggi si parla in Germania.

Che fare quindi? Aumentare la sorveglianza? Più facile a dirsi che a farsi. Questo tipo di strategia richiede per ogni sospettato l’impiego giornaliero di decine di uomini. Dato il numero degli “attenzionati” ci vorrebbero risorse, in termini di uomini e mezzi, che nessun Paese è in grado di permettersi. Si possono fare pressioni sui Paesi di provenienza? Certamente. Ma rimarremmo molto sorpresi se questa strategia avesse successo. Al di là delle loro inefficienze croniche, il peso del conflitto di interessi è determinante.

Ne deriva, pertanto, che i Paesi ospitanti devono vedersela da soli. Attualmente, nel limbo rappresentato dalla lunga attesa dei documenti, che certifichino la nazionalità originaria, il sospettato è lasciato sostanzialmente libero. Libero di agire indisturbato fino al caso limite dell’attentato terroristico. É una situazione che può durare? Domanda che sarebbe retorica se non vi fossero pericolose implicazioni. L’impunità può far luogo, infatti, a fenomeni imitativi, che devono essere, quanto prima, combattuti e stroncati.

E allora? Le uniche soluzioni razionali, che sfuggano alla trappola del pietismo, sono solo due: avviare le pratiche per estrazione molto prima che la condanna detentiva abbia termine. Ma se questa data è scavallata prevedere una sorta di “confino” coatto. L’ulteriore attesa deve essere consumata collocando il clandestino, ritenuto pericoloso, in un posto dal quale non possa fuggire. Non necessariamente una prigione, ma un luogo – ad esempio una piccola isola – dove il controllo sia facilitato dall’esistenza di barriere fisiche. L’importante è impedirgli di nuocere ancora. Un rigurgito neo fascista, visti i precedenti italiani? Sciocchezze. Questa pratica fu usata, con mano ferma, dagli Stati Uniti, durante la seconda guerra mondiale, nei confronti della comunità giapponese colà residente. Ne vale l’obiezione che allora si combatteva.

Quella che stiamo vivendo non è forse una guerra? Non sarà convenzionale, ma certo non è un pranzo di gala. Quindi: obiezioni inconsistenti. Manca la legittimazione giuridica: questo è vero. Ci vuole una legge, che nel caso dei clandestini introduca questa sorta di pena accessoria. Non vediamo difficoltà insormontabili dal punto di vista giuridico e costituzionale. Tra l’altro questa disposizione opererebbe come deterrente nei confronti di chi ha scambiato l’Italia per il regno del lassismo. Dove si può fare tutto a causa di maglie troppo larghe che, di fatto, garantiscono l’impunità. E allora che qualcuno si faccia sotto, predisponendo una proposta di legge. Meglio sarebbe che l’iniziativa partisse dal Governo. Darebbe un pizzico di serenità in più al nostro popolo. E porrebbe fine a quel semplice abbaiare alla luna contro un’immigrazione incontenibile.

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