Il solito Marco Travaglio non ha aspettato neppure la notizia della convocazione al Quirinale e del conferimento dell’incarico di formare il nuovo governo per liquidare il ministro uscente degli Esteri Paolo Gentiloni Silveri come “un sughero, un galleggiante che non disturba”. Poi è passato alla botanica e gli ha dato della “pianta grassa”
Luca Telese gli ha invece restituito il soprannome romanesco di “er moviola” pescando nei suoi trascorsi giovanili di extraparlamentare di sinistra, quando passò da Mario Capanna al Pdup, e dal Manifesto approdò, fra il sollievo dei familiari, nell’area più moderata degli ambientalisti. Dove Chicco Testa gli rimediò la direzione di un periodico e la professione di giornalista, ma soprattutto conobbe l’ormai ex radicale Francesco Rutelli. Che da scopritore di talenti, fra i quali gli sarebbe toccato d’incontrare anche l’allora aspirante presidente della provincia di Firenze Matteo Renzi, se lo allevò nella sua scuderia capitolina. Prima lo nominò suo portavoce e poi assessore, sino a promuoverlo ministro delle Comunicazioni nel secondo governo di Romano Prodi e a portarselo appresso nel Pd. Da dove “Cicciobello”, come l’ex sindaco di Roma veniva scherzosamente chiamato dagli amici, si tirò fuori quando con l’elezione di Pier Luigi Bersani a segretario gli sembrò di trovarsi in una riedizione del Pci. Gentiloni invece vi rimase un po’ per pigrizia e un po’ per furbizia con risultati che parlano da soli, visto che è riuscito a scalare, spinto da Renzi, prima la Farnesina e poi Palazzo Chigi. E non è per niente detto che finisca qui.
A dispetto delle sue maniere gentili, conformi al nome e ai quarti di nobiltà che porta, il conte Gentiloni rischia di pagare cara politicamente la spinta decisiva ottenuta dall’odiato Renzi. Che si è fidato di lui piuttosto che di Dario Franceschini, espostosi imprudentemente nella corsa a Palazzo Chigi, per quanto il barbuto ma elegante custode dei beni culturali abbia cercato di scaricare sui soliti giornalisti troppo maliziosi la responsabilità delle voci circolate sulle sue ambizioni.
Le vecchie opposizioni hanno già contestato al nuovo presidente la mancata “discontinuità”, come loro avvertono una scelta fuori dal mazzo delle carte renziane. Non dissimile è, dietro la facciata della soddisfazione e del sostegno, l’umore delle minoranze del Pd, che hanno dato sempre filo da torcere a Renzi, sino a salire sulle barricate referendarie del no alla sua riforma costituzionale, e ne daranno ora anche al fedele Gentiloni. Di cui la delegazione del partito ricevuta al Quirinale dal presidente Sergio Mattarella ha raccontato di non aver fatto neppure il nome, essendosi limitata a rimettersi alle valutazioni e decisioni del capo dello Stato.
Sarà stato evidentemente un piccione viaggiatore a portare al Quirinale un biglietto col nome di Gentiloni partito da Pontassieve, dove Renzi sta ancora aprendo gli scatoloni del trasloco da Palazzo Chigi.
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Il congresso anticipato del Pd messo in cantiere da Renzi convocando per il 18 dicembre l’Assemblea Nazionale preparatoria potrebbe complicare, volente o nolente, il lavoro del nuovo governo alle prese con le banche, con i vertici internazionali in programma in Italia a marzo e a maggio, con la ricostruzione nei territori terremotati ma soprattutto con quella che Mattarella ha chiamato “armonizzazione” delle regole elettorali. Che è necessaria per poter mandare gli italiani alle urne entro giugno, come vorrebbe Renzi, richiamato all’ordine dal presidente della Repubblica solo quando ha permesso ad Alfano di parlare di elezioni anticipate già a febbraio.
La stessa preparazione della lista dei ministri e quella successiva dei sottosegretari si è prestata, a torto o a ragione, ad una lettura congressuale, in funzione cioè delle alleanze correntizie necessarie al segretario per vincere la partita che ha assunto il sapore del tentativo di una rivincita sulle componenti del Pd che hanno contribuito, per giunta vantandosene, alla vittoria referendaria del no alla riforma costituzionale.
Smaniose prima del referendum del 4 dicembre di un congresso anticipato del partito, le minoranze piddine non hanno gradito per niente la fretta di Renzi di arrivarvi, cioè di accontentarle. I signor No del Pd hanno evidentemente cambiato opinione, come d’altronde succede di frequente da quelle parti. E’ accaduto anche durante la campagna referendaria, quando i dissidenti hanno preteso e ottenuto l’impegno per una radicale riforma della legge elettorale della Camera, chiamata Italicum, e per una elezione dei consiglieri regionali destinati ad essere anche senatori, ma hanno declassato a “un foglietto” l’accordo in questa direzione strappato a Renzi da Gianni Cuperlo. E sono rimasti sulle barricate del no.
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Pier Luigi Bersani, che pur di morire dal ridere quando Maurizio Crozza draculizza Renzi ride anche delle caricature che il comico fa di lui, ma con ben altro tono, ha mandato in avanscoperta il suo Davide Zoggia sulla strada del congresso anticipato con due richieste a dir poco minacciose.
Egli ha innanzitutto reclamato le dimissioni o l’auto-sospensione di Renzi, già tentato peraltro di suo – secondo indiscrezioni del Corriere della Sera – da un altro passo indietro, perché non sarebbe un segretario “di garanzia” per un congresso davvero libero. Ed ha citato come esempio il congresso di tre anni fa, gestito da Guglielmo Epifani come segretario provvisorio dopo le dimissioni di Bersani, travolto dal fallimento del tentativo di formare un governo di minoranza con l’aiuto dei grillini e poi dalla mancata elezione al Quirinale di entrambi i candidati del Pd messi imprudentemente in pista: prima Franco Marini, allora presidente del partito, e poi Romano Prodi. Si deve essere ben disinvolti per paragonare quella crisi, e relative dimissioni volontarie, alla situazione odierna.
Zoggia ha inoltre chiesto di cambiare le regole del precedente congresso per limitare agli iscritti al partito le primarie che dovranno accompagnarlo. Ma meno aperte ai non iscritti saranno le prossime primarie e meno possibile sarà la conferma di Renzi. Che a quel punto, se il gioco si facesse così sfacciatamente pesante, potrebbe anche rompere il giocattolo e andarsene dal partito per crearsene uno suo, come Massimo D’Alema lo ha più volte accusato di voler fare. Ma in quel caso sarebbe interessante vedere quanto lo stesso D’Alema e compagni riuscirebbero a conservare del 41 per cento dei si raccolti quasi da solo da Renzi nel referendum costituzionale.